Lettera ai colleghi ARIPS (1999)

“La moderna deificazione della mera sopravvivenza, una sopravvivenza che rinvia a se stessa, nuda e astratta, con la negazione di qualsiasi sostanziale eccellenza in ciò che sopravvive, tranne la capacità di una misura ancora maggiore di sopravvivenza, è senz’altro la tappa intellettuale più strana mai proposta da un uomo ad un altro uomo.”William James

(in Lasch C. “L’IO MINIMO”, Feltrinelli, Milano, 1996)

Cari amici,

Leggere questa frase mi ha fulminato, perché da sempre la sentivo mia senza riuscire a esprimerla. recentemente qualcuno ha posto la questione antica del doppio rapporto professione - privato e professione – politica, che è una riedizione della catena individuo – gruppo – comunità, o soggetto – lavoro – polis. La frase di James ci chiama ad una premessa radicale, per affrontare la questione.

Se partiamo dalla “deificazione della sopravvivenza” l’individuo diventa atomo, il gruppo una nevrosi, la comunità un polo di contrazione invece che di attrazione; il soggetto si fa suddito, il lavoro fatica, la polis impero. La vita per se stessa diventa una divinità di fronte alla quale tutti siamo cose e chi ha il potere di minacciarla diventa onnipotente.

Se partiamo dalla vita come ricerca dell’eccellenza, come progetto di creazione, come libertà espressiva, come impegno di auto - realizzazione, allora il modo di vedere le cose cambia e molte risposte vengono da sole.

L’individuo non è più un atomo strutturato attorno alla gerarchia che parte dalla sopravvivenza, ma una molecola  che si evolve in più direzioni, relative, condizionate, interconnesse. Sopravvivere sì, ma a precise condizioni e con opzioni plurime. Il gruppo e il lavoro, intesi come aspetti dell’uomo socius e faber, costruttore di nuovi legami con gli altri e col mondo, diventano addizione invece che sottrazione. Essi sono accolti come, e solo come, spazi di eccellenza, laddove chi sopravvive li considera spazi di necessità. La comunità e la polis, sono alienazione e imperio se si riducono a  sostegni o minacce alla sopravvivenza, sono orizzonti se viste nell’ottica dell’eccellenza esistenziale.

No, non può esistere alcuna separazione fra professione e privato, se non per chi professa/lavora per sopravvivere. Sì, ciò che facciamo come lavoro, è non solo indirettamente, ma direttamente e immediatamente politica.   Privato - professione - politica è una catena  scindibile solo dalla “deificazione della sopravvivenza”, che a difesa del rischio di naufragio immola l’eccellenza, il progetto, ed infine, la dignità. Naturalmente si tratta di una catena del Soggetto, e dunque interpretata diversamente da ognuno.

Per quanto mi riguarda, non ho mai sentito il conflitto fra professione e paternità, convinto che esistano pochi modi di essere padri oltre l’esempio. E  l’esempio di chi vive e lotta non per sopravvivere ma per vivere con un sogno, è la più alta forma di educazione possibile. La concezione moderna per cui il buon genitore si occupa di pannolini,  e porta ogni domenica il figlio a Disneyland, è la versione famigliare del buon lavoratore che fa il suo dovere e partecipa alla assemblee sindacali.

Nella famiglia, sottomissione al Super-Io mass-mediatico, minimalismo, arcadia e perbenismo sono le armi più efficaci del controllo sociale, anche perché agiscono sul senso di colpa. Secoli di educazione sono andati diversamente e il numero dei nevrotici non era superiore all’odierno. Milioni di bambini crescono male avendo due genitori presentissimi fino all’asfissia, ed altri milioni crescono benissimo iniziando la vita come orfani di uno o (forse meglio) di due genitori. Educare un figlio significa soprattutto cercare di vivere come un essere umano, alla ricerca del senso e del valore, prima dei figli, del partner e della sopravvivenza. I nostri figli cresceranno col mito della sopravvivenza, se ci vedranno vinti, timorosi, proni di fronte ad essa.

Non ho mai neppure sentito il conflitto fra professione e tempo libero. Forse perché considero la nostra professione una ricerca organizzata del senso e del valore della convivenza, cioè della vita, non riesco a pensarla come lavoro. E il tempo mi sembra libero quando posso occuparmi del senso e del valore, molto più che quando devo ballare in mezzo al frastuono, stare in coda per lo skilift, o addormentarmi davanti ad un talk show. Anche su questo equivoco è ora di smetterla. Ci sono milioni di lavori dipendenti, faticosi, insalubri, privi di senso, e per di più mal pagati, dai quali bisogna astenersi: questo lavoro non va diminuito, ma rifiutato tout court. Ci sono anche migliaia di attività di tempo libero, servili, faticose, pericolose, prive di senso, e per di più costose, che sono il mero prolungamento del lavoro descritto: questo tempo libero va aborrito più del lavoro. Ci sono poi lavori autonomi, relativamente piacevoli, ricchi di significati, spesso anche pagati con dignità, che assomigliano molto a ciò che uno farebbe nel tempo libero. L’orario corto, il tempo libero, la vacanza, la pensione sono difese erette contro il lavoro alienato che non hanno senso di fronte al lavoro espressivo. Di fronte al lavoro espressivo, come accade nel lavoro artistico, può sembrare alienazione occuparsi delle incombenze familiari, celebrare le feste, partecipare ai riti del tempo libero. Chiunque esercita una professione piena di senso non ha dubbi nella scelta fra tre ore di lavoro e una festa di Carnevale! Perché chi esercita una professione piena di senso finisce per avere partner e amici che appartengono a quella professione? Perché quel lavoro è la cosa che interessa di più nella vita e parlare d’altro sembra spesso tempo perso. Non c’entrano qui la carriera o i soldi, l’interesse è per un lavoro che è un filtro, un occhiale, un faro puntati su quegli aspetti della vita che ci paiono più espressivi. Certo, anche il lavoro migliore ha degli aspetti orribili, ma anche il tempo libero, l’amore, ogni cosa ne ha. Fatica, costi, code, organizzazione, incidenti, noia, delusioni sono presenti nel lavoro come nel tempo libero.

E ancora, no, i soldi non sono un problema. Lo dico da chi non ne ha. Lavorare per i soldi equivale a prostituirsi. E la vendita della mente, del cuore o delle mani non è più nobile della vendita di altre parti del corpo. I soldi non servono se i consumi sono controllati. Se non si cede al ricatto della casa, della macchina, della moda. I soldi sono il ricatto della cultura borghese che ha dovuto compensare la trasformazione del lavoro da espressione in servitù. Chi fa un lavoro come il nostro, non lo fa per i soldi.

E sa che i soldi arrivano sempre, in proporzione alla convinzione ed all’investimento che mettiamo nel farlo. Tutti abbiamo avuto dei figli. Tutti abbiamo qualche cambiale da pagare. Ma ciò che ci distingue gli uni dagli altri è la volontà di essere noi stessi e spendere la vita alla ricerca del senso e del valore.

La domanda se il lavoro sociale e immateriale abbia oggi in concreto un valore politico ed esistenziale non è tuttavia priva di senso, visto lo scenario da basso impero nel quale l’Occidente è sprofondato. Credo però che pensare alla convivenza sia il destino dell’Uomo, senza tempo. E che il lavoro con l’Altro sia giustificato in se stesso. Noi pensiamo e sentiamo e possiamo aiutare milioni di essere umani a fare lo stesso. Non esiste compito più nobile. Quando entro in un’aula sento che ho l’occasione di contrastare il destino e di spingere chi è lì a fare altrettanto. Nient’altro conta.

Il “pubblico” per il quale lavoriamo da venti anni è ormai il cancro di questo Paese e di tutto l’Occidente, ma non è il privato, bensì il sociale, l’alternativa. Dobbiamo tornare alle analisi dei primi Anni Settanta, quando le Istituzioni, come le norme, erano considerate tanatos. L’eros che cercavamo di introdurre aveva spazio solo negli interstizi, nelle pieghe e nelle contraddizioni del sistema. Per venti anni ci siamo illusi che esistesse una possibilità di cambiare il mondo dall’interno, ora ci resta (ma non è poco) la speranza di cambiare le persone. L’idea che propongo è quella di considerare il lavoro col “pubblico” un’edizione pacifica del vecchio esproprio proletario, senza pietà e senza tentennamenti, attingendo più soldi possibile da investire nella causa del pensare al senso ed al valore, dello stimolare la gente a espandere il suo potere sulla vita, del dare risposta alla nostra domanda di sovranità sul tempo. Il che, in ultima analisi, è un modo per esercitare una stupenda professione, agire nella polis, e spendere il nostro tempo libero. Con affetto,

Marzo 1999