L’operatore sociale cortocircuitato: la "burning-out syndrome" in Italia
di Guido Contessa*

SOMMARIO:

1. L ‘operatore sociale cortocircuitato
2. Cause del cortocircuito
3. Stadi del cortocircuito 3.1 Fase 1: entusiasmo idealistico
3.2 Fase 2: stagnazione
3.3 Fase 3:frustrazione 3.3.1 Fattori di frustrazione
3.3.2 La frustrazione si autoalimenta

3.3.3 Risposte alla frustrazione
3.4 Fase 4: apatia
4. Interventi 4.1 Falsi interventi
4.2 Interventi sul piano organizzativo

4.3 Interventi sul piano del proprio lavoro

4.4 Modificazione degli atteggiamenti

4.5 Altri suggerimenti
4.6 Dieci dimensioni o caratteristiche di personalità

Nota bibliografica

Esercitazione

1. L’operatore sociale cortocircuitato

Chi è l’operatore sociale cortocircuitato? E 1’operatore di un Centro antidroga in superlavoro, sotto pagato, che sente la tentazione di "evadere" come i suoi utenti; è l’insegnante che prova nausea per le riunioni, gli sforzi innovativi e i rapporti coi genitori; è l’infermiera che si stente sommersa dalle continue pressanti richieste dei pazienti; è lo psicologo che si accorge che i suoi pazienti guadagnano il triplo di lui; è l’assistente sociale che vede i suoi "casi" ripetere continuamente gli errori contro i quali essa lavora; è il direttore didattico che sperimenta ogni anno un ricambio del 50% degli insegnanti; è l’amministratore di servizi sociali cui le leggi impediscono di fare bene il proprio dovere. Cortocircuitato è l’operatore che alla domanda se sarebbe disposto ad essere fra dieci anni allo stesso posto a fare lo stesso lavoro, risponde: "Preferirei essere morto".
Secondo J. Edelwich e A. Brodsky, autori di un testo sul "burn-out", l’entrata di cortocircuito corrisponde a "una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano".
Nel nostro Paese mancano ricerche precise sull’entità della diffusione di questa sindrome, ma basta un po’ d’esperienza per ipotizzare che sia assai diffusa. Tale diffusione è forse più alta in Italia che altrove a causa della discrepanza fra l’onda di entusiasmo innovatore degli anni 60-70 e l’onda (da alcuni chiamata di riflusso) degli anni ‘80.
Le conseguenze del cortocircuito sono molto gravi a tre livelli:

1. a livello degli operatori, che pagano il cortocircuito in termini personali, anche attraverso gravi somatizzazioni (mancano dati sulle malattie professionali degli operatori sociali), ma soprattutto attraverso frustrazioni, dispersione di risorse, sotto utilizzazione di potenziali, ecc.;
2. a livello dei clienti, per i quali un contatto con operatori sociali in cortocircuito, risulta frustrante, inefficace o dannoso;
3. a livello sociale, per la comunità in generale, che vede svanire forti investimenti nei servizi sociali.

2. Cause del cortocircuito

In genere in Italia, quando appare un fenomeno sgradevole, ci si precipita ad accollarne le cause a entità lontane o imprecisate come "i politici", "il governo", "l’ignoranza", ecc. Ciò non aiuta affatto a capire il fenomeno e quindi ad affrontarlo. In questo caso, il cortocircuito é il risultato di numerose concause, appartenenti ad ordini logici diversi. Vediamo in sintesi:

a) entusiasmo iniziale e nobili aspirazioni,
b) mancanza di criteri e metodi per misurare il successo,
e) bassa retribuzione a fronte di alti livelli di istruzione, capacità e responsabilità,
d) possibilità di carriera limitate al settore amministrativo,
e) maschilismo,
f) inadeguatezza dei fondi e dei supporti istituzionali,
g) uso irrazionale delle risorse,
h) alta visibilità unita a diffidenza e incomprensione.

In genere la visione di cosa determini maggiormente il cortocircuito, varia in base alla posizione gerarchica dell’operatore ed in base alla sua formazione e mansione.
In base alla gerarchia possiamo trovare tre livelli:

- l’équipe di coloro che operano direttamente con l’utenza (costoro hanno come principale il problema dell’impotenza e della inefficacia, e, come conseguenza, una polarizzazione antagonista verso operatori di più alto status nello stesso servizio: infermieri contro dottori, assistenti sociali contro psicologi, psicologi contro medici, ecc.);

— quadri intermedi (costoro hanno il problema di equilibrare la propria lealtà verso l’alto e verso il basso);

— vertice responsabile (il problema di costoro è trovare un equilibrio fra interno ed esterno: dirigere l’interno, ma difenderlo da un esterno minaccioso e critico).

In base alla formazione ed alla mansione, elenchiamo:

— i volontari senza una formazione formale (temporaneità),

— i tirocinanti (sovra-identificazione coll’utente),

- gli operatori professionali con diploma (gruppo più cortocircuitabile),

- gli operatori professionali con laurea (isolamento),

- amministratori e coordinatori (impreparazione).

Il cortocircuito è una malattia contagiosa. Esso procede dai clienti all’équipe, da un membro dell’équipe ad un altro, dall’équipe agli utenti.
Perciò la sindrome non è affatto una questione personale di chi ne è affetto, ma riguarda l’organizzazione dei servizi, la comunità, gli utenti oltre che l’individuo stesso.

3. Stadi del cortocircuito

Edelwich e Brodsky identificano 5 stadi del cortocircuito:

  1. l’entusiasmo,
  2. la stagnazione,
  3. la frustrazione,
  4. l’apatia,
    5. l’intervento.

Questi stadi hanno due caratteristiche: anzitutto sono molto contagiosi; in secondo luogo la loro progressione non è lineare, ma ciclica. Il ciclo può essere interrotto in ogni punto con un intervento appropriato, ma può ripresentarsi più volte nella vita.

3.1 FASE 1: Entusiasmo idealistico

Quali sono le motivazioni che spingono un operatore sociale a fare questa scelta professionale?
Sicuramente un elemento centrale è la voglia di fare qualcosa per migliorare il mondo. In certi casi c’è un sottofondo ideale, religioso, politico o umanistico; in altri una base tecnocratica: ma sempre la base è entusiastica.
Un secondo motivo è la sicurezza dell’impiego pubblico e sicuro. Un terzo è quello di svolgere un lavoro non manuale e di prestigio.
Ci sono poi motivazioni meno consapevoli come: il desiderio di approfondire la conoscenza di sè e il desiderio di esercitare un controllo o un potere sugli altri.
In questo stadio un intervento possibile ha a che fare con la formazione di base, che oltre a dare capacità, dovrebbe approfondire molto le motivazioni reali che stanno alla base della scelta. In linea generale tutte le motivazioni possono essere usate positivamente, purché siano consapevoli.
Spesso una spinta alla scelta deriva dalla identificazione con un operatore che ha lavorato con successo col soggetto che compie la scelta. Molti diventano psicoterapeuti dopo una psicoterapia fortunata; molti scelgono l’insegnamento come emulazione di un loro maestro. In questi casi le scelte partono da una base di ottimismo, che sottolinea più i lati positivi e fortunati di una professione, piuttosto che quelli negativi e scomodi.
La formazione di base deve perciò tendere a mettere in luce le motivazioni reali e a far affrontare agli studenti frustrazioni simili a quelle correnti nella professione. In altre parole la formazione di base deve tendere al realismo, diminuendo gli aspetti utopici e idealistici degli studenti.
Argomento a parte è quello che riguarda le aspettative dell’operatore:

— aspettative di onnipotenza o "idealismo narcisistico",

— aspettative miracolose per se stessi (la mia vita sarà risolta),

— aspettative di soluzioni semplici (negazione delle resistenze),

— aspettative di successo generalizzato (negazione delle incompatibilità),

— aspettative di successo immediato (negazione dei lunghi periodi),

— aspettative circa le motivazioni degli utenti (negazione dell’alienazione),

— aspettative di controllo (negazione della fantasmatica dell’utente),

— aspettative di apprezzamento (negazione dell’ostilità dell’utente),

— aspettative di rapporto con l’utenza (negazione del lavoro a tavola),

— aspettative di status (negazione della quotidianità).

Queste aspettative, se presenti in misura eccessiva, sono una delle cause del cortocircuito.

Quando a queste si aggiungono:

— aspettative di compiti concreti (negazione della complessità),

— aspettative di formazione permanente (negazione dell’efficienza), la situazione diventa ancora più pericolosa.

La fiducia irrazionale e magica è dura a morire. In genere i tests di realtà non bastano a demolire le aspettative. Semplicemente l’operatore tende a far permanere le illusioni, negando valore all’esperienza. Subentra la logica dell’altrove o dell’altra volta. Si ipotizza che le aspettative sono frustrate non perché irreali, ma perché la situazione ed il tempo non sono quelli "giusti"..

3.2 FASE 2: Stagnazione

Questa fase riguarda un primo stallo dopo l’iniziale entusiasmo.

L’operatore continua a lavorare, ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. Di solito le prime avvisaglie della stagnazione derivano dalla scoperta che i risultati dell’impegno sono impalpabili, incerti e aleatori. "Che cosa sto facendo?" è la domanda tipica, che apre la stagnazione. Il superimpegno iniziale, la chiusura dell’operatore nel "primo mondo" dei colleghi, l’uso di "portarsi a casa" il lavoro cominciano a diventare meno giustificati e sopportabili.
In questa fase si affacciano i rimpianti per il superinvestimento nel lavoro ed il disinvestimento nel privato.
Avanza un sentimento di "carriera bloccata", come se non ci fossero nuove esperienze e nuovi sforzi da fare. Diventa consapevole anzitutto la delusione circa il basso salario. Questa delusione si accentua nel confronto con: i salari di alcuni utenti, i salari di operatori di più alto status nello stesso servizio, i salari di operatori con stessi titoli ma operanti in settori privati.

Si affaccia anche una preoccupazione per la carriera. L’operatore sociale scopre che una eventuale carriera comporta un cambiamento di lavoro, cioè un salto dal lavoro sul campo ad un lavoro d’ufficio, di solito a natura prevalentemente amministrativa. Spesso a questo punto sorge l’esigenza di riprendere gli studi, passare ad un livello superiore d’istruzione, per ottenere un più alto status nell’ambito dello stesso servizio. Durante la fase di stagnazione l’operatore rischia di passare da una situazione di superinvestimento ad una di disinvestimento totale; oppure di fuggire alla ricerca di altre situazioni che dovrebbero consentirgli la realizzazione delle sue magiche aspettative.
Possibili interventi in questa fase sono gli aiuti provenienti dai colleghi e dai colleghi più anziani o coordinatori. Una situazione di lavoro collettiva, aperta e creativa, dialettica e "calda" può servire come prevenzione del cortocircuito nella fase di stagnazione.

3.3 FASE 3: Frustrazione

La frustrazione è il nocciolo del cortocircuito.
La frustrazione massima appare quando l’operatore comincia a pensare di "non aiutare realmente nessuno" e di non "servire a nulla". Appare a fianco di dubbi globali sul tipo di lavoro, il suo significato, la sua utilità effettiva.

3.3.1 Fattori di frustrazione

I due cardini centrali della frustrazione sono: il senso di impotenza dell’operatore e la non rispondenza del servizio ai bisogni reali degli utenti. Insomma la frustrazione riguarda il vissuto di inutilità del lavoro sociale sia individuale sia organizzato e istituzionale.

a) L’impotenza riguarda il rapporto operatore-utente, ma anche il rapporto operatore-comunità e il rapporto operatore-istituzione.
Molti lamentano il fatto di non riuscire a influire effettivamente sui problemi; ma altri si lamentano di essere lasciati soli a decidere. Il senso di impotenza non ha dunque a che fare con l’assenza di potere: sorge essenzialmente dalla caduta dell’onnipotenza e dalla constatazione della parzialità radicale del proprio intervento.
Anche le istituzioni nelle quali l’operatore lavora vengono vissute come impotenti ed emerge drammaticamente la discrepanza fra obiettivi dichiarati e formali, e modalità e risultati realizzati.
Servizi di prevenzione che diventano ambulatori; servizi antidroga sommersi da compiti burocratici; servizi di educazione, che operano come centri di custodia. A ciò si aggiunga il burocratismo, i giochi di corridoio a sfondo partitico, il conservatorismo istituzionale, la rigidità organizzativa, la spersonalizzazione: tutto porta ad un quadro di impotenza istituzionale e di frustrazione generalizzata.
Potremmo qui allargare l’analisi sulle origini istituzionali del malessere, ma il tema è stato talmente dibattuto negli ultimi anni che diamo per acquisite molte considerazioni. Una sola osservazione.
L’operatore in cortocircuito trova un terreno fin troppo vulnerabile nell’accusare l’insipienza o la malafede degli amministratori; d’altra parte questi ultimi hanno sempre un potere politico superiore cui addossare ogni responsabilità, oppure trovano comodo accusare gli operatori di incompetenza, disaffezione, dilettantismo, utopismo.
Il gioco non è altro che un mega-corto-circuito nazionale, dove le vie d’uscita sembrano inesistenti: come è infantile negare ogni responsabilità in nome di un magico destino crudele, che rende i servizi non funzionanti, è altrettanto infantile cercare "il" responsabile della inefficienza o del cortocircuito.
Negli anni ‘80, l’unica via per uscire dal cortocircuito generalizzato dei servizi, è data da una riprogettazione globale e contrattata dei servizi sociali, evitando che tale lavoro sia orientato esclusivamente a penalizzare qualcuno.

b) Uno degli elementi del senso di impotenza dell’operatore è la scoperta che lui stesso e l’istituzione per cui lavora non rispondono ai bisogni reali degli utenti. Quali bisogni e quali utenti?
Gli utenti dei servizi sociali, come i genitori della scuola, vengono tirati in ballo strumentalmente a seconda dei casi dai conservatori o dai progressisti, dagli operatori di base e ‘dagli amministratori, dai politici locali e dalle avanguardie degli utenti stessi.
Gli utenti sono via via soggetti che conoscono i loro bisogni o che li ignorano; che vanno coinvolti o che vanno esclusi; che hanno sempre ragione o sempre torto; che sono insieme vittime e colpevoli.
Il problema è sempre derivante dal fatto che l’ideologismo e la magia prevaricano sul realismo. La frustrazione in questo caso ha origine nella difficoltà a considerare la realtà come un sistema plurale, complesso, lento, contraddittorio.

c) Un altro elemento di frustrazione è lo scarso apprezzamento dei superiori, siano essi coordinatori, capi, supervisori, amministratori. La gerarchia è il sistema sociale più odiato e desiderato nel contempo. Il superiore è di fronte di frustrazione sia che imperversi sia che si assenti. L’idea del superiore "democratico" sottintende spesso quella di un superiore che si comporta come il subalterno desidera.

d) Causa di frustrazione è anche lo scarso apprezzamento da parte degli utenti. Ci sono utenti in qualche modo "obbligati" ad avvicinare un servizio: costoro sono comprensibilmente ostili. Altri chiedono cose che gli operatori non vogliono o possono dare, e da ciò nasce lo scarso apprezzamento (pensiamo al rapporto scuola/Csz). Altri infine avvicinano il servizio chiedendo cose che l’operatore può dare, ma in misura controllata e limitata: anche qui l’apprezzamento cala. Il bisogno di stima degli operatori nasconde spesso insicurezza o volontà di potere.

e) E' frustrante il lavoro d’ufficio. Schede, relazioni, rapporti, progetti trasformano l’operatore in un impiegato e ciò frustra il suo desiderio "di campo". La maggior parte degli operatori rifiuta questo lavoro, trascurandolo del tutto o espletandolo sciattamente. Alcuni ci si buttano, spesso come difesa ad una situazione cortocircuitata, compilando volumi enciclopedici e dal linguaggio fumoso ed incomprensibile.

f) Infine la frustrazione deriva dalla consapevolezza di un ‘inadeguata formazione al lavoro sociale. - Questa frustrazione colpisce non solo le équipes, ma soprattutto i quadri, totalmente impreparati a gestire questo ruolo. Questo rimanda alla responsabilità delle scuole e delle università, ma rimanda parimenti allo scarso auto aggiornamento individuale.

g) La frustrazione è generata anche da altri fattori, forse meno importanti dei primi, ma ugualmente diffusi.
Per esempio, il maschilismo è fonte di frustrazione per le operatrici. Di maschilismo sono affetti gli utenti (quando uno entra al consultorio e alla dottoressa chiede: "dov’è il dottore?"); gli operatori che raramente delegano una donna a rappresentarli; gli amministratori, che per scegliere i capi-settore, pensano sempre agli uomini.
Altra area di frustrazione è il dilemma fra area politica ed area tecnica. La cosa è ancora più complessa quando dei tecnici vengono eletti in organismi di gestione. Il gioco delle invasioni di campo o delle abdicazioni è frenetico e diventa un moltiplicatore di frustrazioni incrociate.
L‘immagine sociale è causa di frustrazione. Gli insegnanti hanno perso negli ultimi anni gran parte della loro immagine; i medici dei servizi pubblici hanno abbassato la loro immagine a burocrati; le assistenti sociali appaiono spesso come le assistenti degli psicologi; e questi ultimi sono considerati sovente stregoni inutili.
Una comunità (territorio) insensibile e ostile è fonte di grosse frustrazioni. Per motivi ideologici o per arretratezza culturale, per diffidenza verso i tecnici o per timore di vedere rotti certi equilibri consolidati, il territorio respinge spesso gli operatori, oppure chiede loro servizi impossibili; collabora scarsamente, per poi accusare i servizi di inefficienza; chiede di partecipare, per poi disinteressarsi.
Infine provoca frustrazione l’insieme dei rapporti coi colleghi. In un lavoro che non può fare a meno della collegialità e della interdisciplinarietà, anzi dove questi elementi sono idealizzati come un aspetto fondante della scelta lavorativa, la scoperta che essi sono sottoposti alle stesse regole di tutti i rapporti umani, può portare frustrazioni fortissime.

3.3.2 Il ciclo della frustrazione si autoalimenta

Operatori frustrati si contagiano a vicenda e trasmettono il contagio agli utenti. Costoro rispondono in modo da rafforzare la frustrazione dei primi e così via.
Sintomi della frustrazione sono: stanchezza, tensione, irritabilità, pessimismo, perdita della dimensione progettuale, mal di testa, abuso di fumo e alcol, impazienza, insonnia, difficoltà relazionali e sessuali, ulcera, difficoltà di respirazione e digestione. Insomma vengono colpite le aree psicosomatiche, alimentari e relaziona li.

3.3.3 Risposte alla frustrazione

1. aggressività distruttiva (auto o etero),

2. aggressività positiva (cambiamento),

3. disinvestimento (sfuggire gli utenti, i colleghi, il lavoro attivo).

3.4 FASE 4: Apatia

L’apatia prende forma come un progressivo disimpegno emozionale, conseguentemente ad una situazione di frustrazione. Il punto di partenza è sempre l’entusiasmo idealistico, la iperidentificazione del neofita.
Per scendere a terra e lavorare efficacemente, un qualche distacco è desiderabile ed inevitabile. Ma molti operatori non si fermano al distacco "giusto". L’apatia può essere sentita come noia o nausea. Il desiderio di aiutare gli altri sparisce, come il coinvolgimento verso l’utente.
Operatori che erano partiti preoccupandosi degli utenti, diventano preoccupati solo della propria salute, benessere, serenità e sopravvivenza.
L’atteggiamento è rassegnato e infelice; le aspettative si abbassano, e così l’impegno: dall’empatia si è giunti all’apatia.
Si tratta di un’evidente difesa dalla frustrazione. Il ciclo è del tipo:
rabbia — tentativi di rimedio — senso di inutilità degli sforzi — indifferenza.
"Un lavoro è un lavoro" "chi me lo fa fare" "chi se ne frega...": sono frasi tipiche della situazione apatica. L’apatia nasconde una disperazione: l’apatia non è divertente.
A parte il costo che questo stadio procura al servizio, agli utenti ed ai colleghi; a parte la contagiosità di questo stadio; resta il fatto che l’apatia è soprattutto una sorta di consapevole "morte professionale" dell’operatore. Ideali e potenziale personale, realizzazione sul lavoro, autostima, subiscono un arresto.
In questo stadio solo una forte scossa emotiva o un drastico cambiamento possono superare il cortocircuito.

4. Interventi

Ho accennato all’inizio che il cortocircuito è il risultato di condizioni di lavoro.
Questo significa che la prevenzione o il superamento di un cortocircuito non possono non svilupparsi attraverso il cambiamento delle condizioni in cui lavora l’operatore. Legislazione, cambiamenti strutturali e organizzativi dei servizi, mutamenti culturali degli attori coinvolti nel servizio sono leve indispensabili. L’analisi di queste variabili esula tuttavia dal presente lavoro, che si propone di considerare il fenomeno dalla sola ottica individuale.

4.1 Dobbiamo fare un accenno ai (falsi)) interventi, che non risolvono il problema, ma lo negano o lo spostano:

1. attività formative saltuarie brevi ed eclatanti,

2. assenteismo,

3. cambio di lavoro, senza cambiare gli atteggiamenti.

In linea generale possiamo dire che per ogni fase del cortocircuito le vie d’uscita sono del tipo:

— entusiasmo/realismo,

- stagnazione/movimento,

— frustrazione/soddisfazione,

4.2 Sul piano organizzativo occorre che:

1. gli operatori siano preparati a interpretare ed accettare situazioni di cortocircuito;

2. sia possibile ristrutturare i compiti (riduzione di orari di lavoro con gli utenti, lavoro in coppia, rotazione mansioni);

3. siano previsti supporti per gli operatori (supervisione, counseling, affiancamento con operatori più anziani, riunioni apposite dell’équipe).

Questi provvedimenti possono sembrare utopici, vista la nostra attuale situazione; ma al contrario è paradossale il fatto che équipes incaricate di operare col disagio degli utenti siano così poco attrezzate ad operare coi propri disagi. Allo stesso modo è paradossale che insegnanti professionali, non siano mai in grado di fare auto aggiornamento reciproco. Sul piano privato occorre che l’operatore recuperi spazi propri di tempo libero e cultura, estranei al lavoro; relazioni sociali con persone che fanno un altro lavoro. E' sempre sorprendente notare come operatori del tempo libero non sappiano affatto gestirsi il proprio; psicologi che si occupano dell’equilibrio altrui siano tanto poco attenti al proprio; insegnanti tanto educativi con gli allievi, siano poi distratti nei rapporti coi figli.

4.3 Sul piano del proprio lavoro le possibilità sono:

— partecipare ad iniziative di riqualificazione e formazione ricorrente;

- modificare la propria mansione o ridurre il contratto di lavoro;

- cambiare mansione del tutto o cambiare servizio;

— fare del lavoro privato, fuori dalla propria istituzione;

cambiare lavoro del tutto, ricominciando con un nuovo atteggiamento.

4.4 Tutto ciò non basta se non si innesta su una modificazione degli atteggiamenti, per la quale indichiamo delle linee generali.
Un operatore sociale che voglia prevenire il cortocircuito, deve rifiutare come irrazionali:

1. l’idea che sia necessario essere amato da ogni utente;
2. l’idea che sia necessario avere la simpatia dei superiori;
3. l’idea che si debba essere sempre competenti e avere sempre successo;
4. l’idea che chiunque sia in disaccordo su certe idee o metodi, sia "cattivo" e diventi un nemico da combattere;
5. l’idea che ci si debba occupare di tutti i problemi di tutti;
6. l’idea che la propria infelicità sia causata dagli utenti o dalla istituzione;
7. l’idea che se i clienti o l’istituzione non fanno ciò che ci aspettiamo da loro, sia una catastrofe;
8. l’idea che ci sia sempre una giusta e precisa soluzione ai problemi umani e che non trovarla sia una catastrofe.

4.5 Superate o ridotte queste idee magiche circa il lavoro sociale, occorre tenere presenti altri suggerimenti:

a) l’operatore sociale non è responsabile che per se stesso: non è responsabile degli utenti o dell’istituzione;

b) l’operatore deve ancorarsi ad aspettative realistiche, come:

— aspettarsi di fare un lavoro difficile e senza grandi aiuti,

— aspettarsi di avere a che fare anche con persone spiacevoli e con punti di vista totalmente opposti,

— aspettarsi di essere lontano dalla perfezione, e che anche i colleghi e gli utenti lo siano;

c) l’operatore deve darsi obiettivi realistici: il mondo’ non chiede di essere salvato dall’operatore sociale;

d) è più efficace sottolineare i successi che i fallimenti: nessuno può risolvere i problemi di chiunque;

e) è più salutare centrare l’attenzione sui processi che sui risultati;

f) darsi una prospettiva di lungo respiro: una prospettiva storica;

g) non attribuire a se stesso, nel bene e nel male, tutto ciò che capita all’utente.

Come si può imparare tutto ciò? Con l’esperienza ragionata e partecipata, con una buona formazione di base e una ricorrente. Ma certo alcuni operatori hanno la strada più facile, per i livelli di sviluppo raggiunti prima della maturità.
Forse in Italia ci sarebbero meno cortocircuitati se esistesse una forma di orientamento professionale e di selezione anche per il lavoro sociale. Molti operatori scelgono il lavoro sbagliato sia per sè che per gli utenti. Chissà quanto operatori sociali cortocircuitati sarebbero felici ed efficaci geometri, designers, artigiani!

4.6 Sidney Wolf indica dieci dimensioni o caratteristiche di personalità che facilitano l’efficacia nei rapporti interpersonali:

1. empatia: la capacità di percepire esattamente ciò che sente l’altro e di comunicare questa percezione;
2. rispetto: la capacità di apprezzare la dignità ed il valore dell’altro ed il suo diritto di fare le sue scelte nei suoi tempi;
3. genuinità: la capacità di essere liberamente e profondamente se stesso;
4. concretezza: la capacità di esprimersi in coerenza coi bisogni dell’utente;
5. confronto:’ la capacità di provocare l’utente circa le sue contraddizioni;
6. apertura: la capacità di rivelare sentimenti ed opinioni a beneficio dell’utente;
7. immediatezza: la capacità di entrare in contatto "qui ed ora";
8. calore: la capacità di esprimere, verbalmente e non, interesse-affetto;
9. forza: la capacità di offrire sicurezza;
10. autorealizzazione: la capacità di vivere con pienezza.

Forse non tutte queste qualità si possono imparare, ma si possono imparare i comportamenti ad esse conseguenti: l’acquisizione di questi comportamenti rende l’operatore più efficace e meno cortocircuitabile.

Note bibliografiche

J. EDELWICH, A. BR0DSKY, Burn-out, Human Sciences Press, N.Y., 1980.
S.WOLF, Counseling-for better or worse, Alcohol Health and Research World, Winter 1974-75, pp. 27-29.
W.GLASSER, Reality therapy, Harper Colophon Books, N.Y., 1975.

PROPOSTA DI RICERCA

Poiché Guido Contessa sta avviando una ricerca sul cortocircuito nei Servizi Sociali in Italia, proponiamo ai lettori di collaborare compilando questa scheda e inviandola in busta chiusa all’ISAMEPS, via M Gioia 48/50, Milano 20124, Tel 02/68.98.414.

1. Qualifica lavorativa
2. Tipo di Ente presso cui lavoro
3. Lavoro nel "sociale" da anni

3.1 Mi sono trovato in una delle fasi del cortocircuito:

spesso ( ) raramente ( ) mai ( )

3.2 I colleghi che mi sembrano affetti da sindrome da cortocircuito sono:

tanti ( ) abbastanza ( ) pochi ( )

3.3 Ho intrapreso questo lavoro (indicare due scelte):
( ) per caso
( ) per aiutare il prossimo
( ) per cambiare la società
( ) perché mi aiutava a crescere
( ) per il suo prestigio
( ) altro (specificare)

4. Gradua in ordine di importanza (1 max) i seguenti items, in base a quanto li senti come problema nel tuo lavoro oggi. All’ultimo spazio indica un problema dei tuoi, che non è compreso negli items:

( ) paga troppo bassa,

( ) troppe ore di lavoro,

( ) nessuna possibilità di carriera,

( ) troppo lavoro burocratico,

( ) formazione insufficiente,

( ) scarso apprezzamento degli utenti,

( ) scarso apprezzamento dei superiori,

( ) nessun aiuto nelle decisioni,

( ) impotenza,

( ) istituzione insensibile ai bisogni degli utenti,

( ) programmi inadeguati del servizio,

( ) ………………………………………………..

 

*Estratto da "Animazione Sociale" N. 42-43 - Novembre 1981 - Febbraio 1982, pag.29-41