1) PREMESSA
La
sindrome del burn-out è stata identificata come specifica malattia
professionale degli operatori dellaiuto da C. Maslach nel 1975.
In questi venti anni molti ricercatori hanno dato alla sindrome diversi
significati che tuttavia possono essere sintetizzati come segue: la
burning-out syndrome è un insieme di sintomi che testimoniano
la evenienza di una patologia comportamentale a carico di tutte le
professioni ad elevata implicazione relazionale. Essa si distingue
dallo stress, che può eventualmente essere una concausa del
burn-out; così come si distingue dalle diverse forme di nevrosi,
in quanto disturbo non della personalità ma del ruolo lavorativo.
Allo stadio conclamato essa di manifesta attraverso tre categorie
di sintomi a volte sequenziali a volte combinati tra loro:
1) comportamenti che testimoniano un forte disinvestimento sul lavoro;
2) eventi autodistruttivi (disturbi di carattere psicosomatico o del
comportamento, diminuzione delle difese immunitarie, aumento della
propensione agli incidenti, ecc.)
3) comportamenti eterodistruttivi diretto allutente (indifferenza,
violenza, crudeltà, spersonalizzazione, ecc.).
La sindrome si presenta in significativa correlazione con la esposizione
a utenti con maggior disagio, ruoli di basso prestigio e scarsa formazione
professionale. Le cause principali della sindrome indicata sono essenzialmente
riconducibili a tre variabili principali, spesso fra loro intrecciate:
1) eccessiva idealizzazione della professione daiuto precedente
allentrata nel lavoro;
2) mansione frustrante o inadeguata alle aspettative;
3) organizzazione del lavoro disfunzionale o patologica.
Queste concause evidenziano due nodi principali nelle professioni
dellaiuto, il cui superamento avrebbe la funzione di prevenire
e curare il burn-out oltre che dare Qualità ai servizi daiuto.
La prima
è quella del reclutamento, della formazione, della selezione
degli operatori. La seconda riguarda la organizzazione del lavoro nei
sistemi daiuto.
2) I
LAVORATORI DELLAIUTO
Ancora oggi il
lavoro dellaiuto sconta il peccato di una ideologia assistenziale,
per la quale il lavoro sociale non è altro che una forma, indebitamente
retribuita, di beneficenza. Medici, psicologi, assistenti sociali,
infermieri, educatori, insegnanti sono ancora immersi nella mistica
del missionariato.
I servizi
sanitari, sociali e culturali sono considerati una prova della munificenza
statale.
Lutente non è un cliente, ma un postulante cui viene
fatta lelemosina di una prestazione daiuto.
Le conseguenze
di questa ideologia, solo da poco in via di estinzione ma ancora molto
diffusa a livello emotivo, toccano gli utenti, gli operatori e le
organizzazioni.
Gli utenti
non hanno diritti, non hanno potere: più che coinvolti vengono
asserviti alle necessità del professionista dellaiuto.
Gli operatori
sono animati da un forte spirito oblativo e salvifico e si sentono
collocati automaticamente dalla parte del bene (salute, sapienza,
potenza, bontà).
Le organizzazioni
si considerano utili per il solo fatto di esistere e non hanno alcuna
spinta al risultato, che si identifica con laiuto prestato.
In sintesi
il lavoro daiuto non è stato finora considerato un lavoro,
ma piuttosto una vocazione, una missione, un dovere, un atto di solidarietà,
una strada per la santità.2.1)
MOTIVAZIONI ED ASPETTATIVELa
scelta di un lavoro risponde sempre ad una motivazione psicologica
e si fonda su aspettative ragionate.
Queste
ultime sono legate allimmagine sociale di una professione, alle
informazioni realistiche che la riguardano, alla appetibilità
sul mercato del lavoro, ai livelli di remunerazione, alle possibilità
di carriera. Le professioni daiuto, almeno negli ultimi trenta
anni, hanno accumulato in tutte queste voci un pesante passivo: immagine
sociale sfuocata o dequalificata quando non addirittura negativa,
progressivo rifiuto del mercato cl lavoro, basse remunerazioni, quasi
nessuna possibilità di carriera.
Perché
dunque le professioni dellaiuto vedono un costante aumento degli
aspiranti?
La domanda
può trovare una risposta non dunque nelle aspettative, quanto
nelle motivazioni psicologiche cioè nei bisogni profondi che
attraversano coloro che desiderano diventare professionisti dellaiuto.
La prima
motivazione riguarda il fatto che chi sceglie questa professione ha
un forte bisogno di aiutare. Aver bisogno di aiutare significa anzitutto
mettersi al di qua della soglia del bisogno di essere aiutati. Essere
preposti alla cura dei malati significa postulare la propria salute
come inattaccabile. Dedicarsi alla psicoterapia implica una certificazione
permanente di salute mentale. Assistere un soggetto in stato di bisogno
offusca la consapevolezza del proprio bisogno.
Mutare,
in certo modo, significa salvarsi dal male esterno.
La seconda
motivazione è legata alla prima. Porsi in un ruolo di bonificatore,
benefattore, salvatore, non solo esorcizza la paura del male esterno,
ma garantisce una buona immagine di sé, cioè dedica
la vita agli altri, non può che essere buono chi lavora per
laiuto: chi lotta contro il male e per di più il male
degli altri è un "cavaliere bianco".
La terza
motivazione riguarda il potere. Chi ha bisogno di aiuto è sempre
in stato di inferiorità, posseduto dal male e da esso depotenziato,
come un bambino cattivo o malato. Il professionista dellaiuto
si pone come grande madre accogliente e grande padre onnipotente.
Esso può fare da contenitore di ogni male del paziente, controllarlo
col suo potere ed espungerlo.
Da queste
tre riflessioni emerge un immaginario dellaspirante professionista
che si fonda su tre pilastri: la salute, la bontà e il potere.
Naturalmente
queste motivazioni sono legittime, come tante altre, e possono essere
utili alla professione, ove siano consapevoli e controllate. Il fatto
è che spesso non lo sono affatto. La non consapevolezza e lassenza
di controllo di questi bisogni profondi, si trasformano facilmente
in una serie di vissuti molto dannosi per loperatore e per lutente.
Lincontro con il bisogno, il disagio, il dolore e la morte attacca
limmagine del potente salvatore e produce depressione e sentimenti
di impotenza. Limpossibilità ad aiutare facilita linsorgenza
del dubbio circa la propria bontà fino a trasformarsi nel vissuto
di malvagità. Infine, la scoperta dellimpotenza fa vivere
come diabolico e persecutorio il potere maligno di cui il paziente
è portatore.
Questo
groviglio di possibili vissuti che colgono loperatore che è
partito da una enorme idealizzazione della professione, lo portano
alla frustrazione prima ed al burn-out poi.
2.2)
LAZIONE PREVENTIVA RISPETTO A MOTIVAZIONI E ASPETTATIVESu
questo tema entrano in gioco i meccanismi di reclutamento formazione
di base e selezione degli operatori dellaiuto. Finora è
bastato lelemento volontaristico. Molti sono coloro che iniziano
a diventare operatori daiuto a partire da esperienze giovanili
di volontariato o di obiezione di coscienza. In quale scuola professionale
o università viene fatta una selezione psicologica per lammissione?
E in base a quale giustificazione non ne viene fatta alcuna? E in
base a quale giustificazione di un permissivismo falsamente democratico
chiunque è ammesso a scuole per operatori dellaiuto,
col risultato di carriere infelici, servizi dannosi e utenti danneggiati.
Una volta
che un allievo è ammesso ad una scuola per una professione
dellaiuto, ci dovremmo almeno aspettare che il curriculum preveda
una formazione delle skills psicologiche minime (un po di consapevolezza
e di autocontrollo), e invece nulla, neppure nelle Facoltà
di Psicologia che preparano gli allievi a sviluppare consapevolezza
e autocontrollo, quando non cura e guarigione, nei futuri utenti,
ma non negli psicologi. Lo stesso dicasi per i medici, anche psichiatri.
Ancora,
i meccanismi di selezione per una qualsiasi tecnica industriale prevedono
dei colloqui e tests attitudinali, mentre lammissione ad un
servizio dellaiuto si basa, quando non su cooptazioni amicali,
su concorsi di tipo amministrativo e teorico cognitivo.
La prevenzione
del burn-out richiede una revisione completa del sistemi di reclutamento,
formazione di base e ammissione in servizio. Essi devono basarsi sulla
analisi delle motivazioni e puntare sulla promozione dei livelli di
consapevolezza e controllo del mondo interno. Una volta inseriti nella
organizzazione daiuto, loperatore dovrebbe essere aiutato
in modo permanente con una apposita supervisione relativa ai suoi
vissuti professionali.
3) LORGANIZZAZIONE
DEL LAVORO DAIUTOIl
lavoro daiuto ha per sua natura la necessità della libertà.
Anche un lavoratore dipendente deve avere lo statuto del professionale:
con il diritto alla ricerca ed alla formazione permanente, al segreto
professionale, alla discrezionalità dei mezzi impiegati. In
genere purtroppo, questo statuto è riconosciuto, e non sempre
solo ai lavoratori laureati, mentre i diplomati sono più spesso
coartati nei loro diritti professionali.
Ciò detto, è pure vero che spesso le mansioni affidate
al lavoratore dellaiuto contengono elementi fortemente dequalificanti,
molto stressanti, sovente lontani dalle aspettative. Basta pensare
al carico buro-amministrativo che grava sui medici; o alla condizione
mista di operatore dellaiuto e della repressione cui sono costretti
infermieri ed educatori a contatto coi pazienti psichiatrici, ex-tossicodipendenti,
carcerati; o ancora alle situazioni di pazienti con gravi handicap,
non autosufficienti o terminali, dove la terapia consiste solo nel
prendersi cura senza alcuna speranza di risultati.
Orbene, in questi casi la prevenzione del burn-out dovrebbe vedere
il lavoro organizzato con tempi non stressanti, magari con periodi
part-time o mansioni a rotazione, per periodi non lunghissimi; con
la suddivisione del carico di lavoro meno gradevole su diversi operatori.
Un altro problema relativo al lavoro è quello che riguarda
retribuzioni e carriera. Il lavoro sociale non è gratificante
per il primo aspetto, né per il secondo. Può sembrare
paradossale, ma retribuzione e carriera, prestigio e potere sono inversamente
proporzionali alla vicinanza coi soggetti bisognosi daiuto,
con la sola eccezione dei medici chirurghi. Il medico di guardia guadagna
meno del primario che guadagna meno dellaccademico. Leducatore
di un servizio territoriale che vede ogni giorno lutente, guadagna
meno dellassistente sociale che lo vede una volta al mese, la
quale guadagna meno del capo-servizio che lo vede una volta lanno.
Lunica possibilità di carriera, nel settore dellaiuto,
consiste nellallontanarsi dallaiuto stesso. La continuativa
vicinanza allutente va inoltre di pari passo, per i ruoli di
frontiera, con la diminuzione delle opportunità di ricerca
e formazione permanente.
Una seria prevenzione del burn-out dovrebbe compensare con maggiori
retribuzioni gli operatori front-line, offrendo loro maggiore potere
e maggiore libertà. Non essendo questo possibile per motivi
economici, occorre allora trovare sistemi compensatori come la formazione
e la supervisione permanenti, listituzione dellanno sabbatico,
il coinvolgimento attivo in attività di ricerca e di confronto
professionale e scientifico, la possibilità di carriere orizzontali
(spostamenti premio, sia pure temporanei, in servizi più gratificanti),
luso di strumenti di incentivazione legati alla qualità
delle prestazioni.
4)LORGANIZZAZIONE
DEI SISTEMI DAIUTOLa
terza causa possibile dellinsorgenza del burn-out è il
modo stesso col quale sono organizzati i sistemi nei quali i lavoratori
dellaiuto devono operare. Malgrado gli "helpers" siano professionali,
i sistemi di aiuto che li contengono sono modellati sui principi organizzativi
delle tradizionali organizzazioni burocratiche e tayloristiche. I
principi dei livelli gerarchici e della divisione del lavoro, della
prevalenza delle procedure e della impersonalità delle prestazioni
ormai messi in discussione persino nelle più tradizionali imprese
produttrici di beni materiali, producono paradossi se applicati nei
sistemi di aiuto.
Il lavoro
dellaiuto si fonda infatti sulla discrezionalità, la
personalizzazione del rapporto, la integrazione delle competenze,
il predominio del risultato. La contraddizione fra questi caratteri
peculiari delle professioni dellaiuto e il modo con cui sono
organizzati i sistemi "contenitore" (servizi sociosanitari, scuole,
case di riposo, ospedali, ecc.), è palese.
Su questa
base generale si innesta un elemento specifico che facilita ulteriormente
il burn-out: la difficoltà di verificare e valutare i risultati.
In una impresa profit, sia materiale che immateriale, il risultato
è il profitto. In un sistema daiuto il risultato è
il benessere. Mentre il primo è facilmente quantificabile,
il secondo non lo è affatto. Chi lavora in una impresa profit
dispone di parametri di conferma o disconferma della propria prestazione,
abbastanza chiari e di facile applicazione. Chi lavora in un sistema
daiuto, lavora al buio, in un regime di risultati invisibili
e di responsabilità distribuite. La carenza di confronto individuale
con i risultati delle proprie azioni produce da una parte uno stato
dincertezza continua e dallaltra facilita la produzione
di allucinazioni.
4.1)
LA FUNZIONE DELLA GERARCHIAI
sistemi daiuto richiedono un diverso modo di interpretare il
ruolo gerarchico. Questo, nelle imprese tradizionali ad impianto burocratico
e tayloristico, si esprime essenzialmente su due interventi: il comando
ed il controllo dellesecuzione.
Nei sistemo
daiuto, il comando è possibile solo riguardo a fattori
marginali (orario di lavoro, assegnazione di utenze, mansioni transitorie),
mentre è impossibile sul contenuto del lavoro: il professional
dellaiuto opera con discrezionalità e non può
essere comandato a fare o non fare un intervento. Lorigine dl
questo diritto alla discrezionalità risiede nel fatto che loperatore
dellaiuto e in certo modo "comandato" dai bisogni dellutente.
Anche il controllo dellesecuzione non è uno strumento
utile e possibile per lautorità operante nei sistemi
daiuto. Da una parte perché loperatore daiuto
non è controllabile a vista, dallaltra perché
lesecuzione del comando è discrezionale.
Lautorità
nei sistemi di aiuto deve essere esercitata attraverso interventi
specifici: il contenimento dellansia, il supporto, la consulenza,
la stimolazione della qualità, la distribuzione di incentivi
immateriali, la creazione di strumenti di controllo dei risultati.
Unazione preventiva del burn-out da parte del ruolo di autorità
si esprime mediante luso articolato e combinato di questi interventi.4.2)
LA FUNZIONE DELLÉQUIPEIl
lavoro dellaiuto si svolge di necessità in équipe.
Il principio della discrezionalità esclude il comando e richiede
il consenso nella gestione ordinaria del sistema daiuto. Léquipe
è lo strumento della gestione ordinaria consensuale di un sistema
daiuto. Daltro canto un utente richiede la cooperazione
di competenze diverse, che apportino differenti informazioni, molteplici
punti di vista interpretativi del bisogno, e strategie di intervento
combinate. Léquipe è un "operatore plurale" dellaiuto,
che si articola via via nelle azioni sequenziali o parallele dei singoli
professional.
Infine,
léquipe fornisce alloperatore uno spazio di appartenenza
e confronto, di supporto emotivo e di controllo: essa è un
contenitore delle dimensioni affettivo-razionali che sono implicate
nel lavoro dellaiuto.
Naturalmente
le tre funzioni indicate per léquipe dellaiuto
(produzione del consenso, operatore plurale e contenitore) hanno una
valenza positiva per lefficienza e possono prevenire il burn-out,
a condizione che léquipe funzioni.
Laddove
il gruppo di lavoro è attraversato da processi disfunzionali
o da dinamiche patologiche, invece della prevenzione, esso offre una
accelerazione della emergenza del burn-out. Rovesciando il concetto,
possiamo dire che léquipe svolge un forte ruolo preventivo
del burn-out a patto che riesca a costruire un consenso, funzionare
come operatore plurale e agire come contenitore emotivo-razionale.4.3)
LA FUNZIONE DEL CLIMAI
sistemi di aiuto producono benessere per i clienti attraverso il benessere
degli operatori daiuto. O meglio i sistemi di aiuto producono
benessere solo se sanno prevenire il malessere o il burn-out degli
operatori. Salute, benessere, disagio sono concetti di tipo essenzialmente
soggettivo. Un individuo sente di stare bene o male, ed il suo stato
è soprattutto uno stato danimo. Anche i sistemi hanno
uno stato danimo che la psicologia chiama "clima".
Il clima
di una organizzazione daiuto è insieme causa ed effetto
degli stati danimo degli individui che ne fanno parte e delle
loro relazioni. Un clima depressivo o conflittuale o disgregato è
insieme spia e causa di una situazione generale che può facilmente
esitare in u burn-out diffuso. Il controllo e lazione di miglioramento
del clima organizzativo è dunque una delle possibili leve di
prevenzione del burn-out.
In termini
operativi è essenziale la periodica rilevazione del clima dellorganizzazione
complessiva e lintervento per la sua tenuta a livelli soddisfacenti.4.4)
IL BURN-OUT DEL SISTEMAEsiste
infine lipotesi di una insorgenza del burn-out a livello dellintero
sistema di aiuto. Una simile eventualità è certamente
foriera di molteplici burn-out individuali.
Questo
fenomeno si può riscontrare in quelle organizzazioni daiuto
che nascono sulla spinta di una forte idealizzazione, poi entrano
in una routine frustrante e mettono in atto una organizzazione disfunzionale
o patologica.
Frequente
è il presentarsi di questa eventualità nelle comunità
per tossicodipendenti; nei servizi per handicappati gravi, per anziani
dementi o per malati terminali di AIDS; nei centri di accoglienza
per nomadi o extracomunitari. In questi casi assistiamo a fenomeni
collettivi di disinvestimento emotivo, di depressione o di sadismo
molti dei quali arrivano alla ribalta dei quotidiani.
La prevenzione
di questo burn-out istituzionale è possibile solo attraverso
il monitoraggio periodico delle principali funzioni organizzative:
clima, appartenenza e soddisfazione degli operatori, risultati, percezione
dei clienti. In sostanza, come afferma M. Jahoda, lorganizzazione,
si garantisce la salute solo attraverso una permanente ricerca su
se stessa.
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Malslach C. (1992): La sindrome del burn-out Cittadella, Assisi.
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Spaltro E. (1994): Qualità. Patron, Bologna (in corso di stampa).
*Tratto da "IL VASO DI PANDORA - Dialoghi in psichiatria e scienze umane" Suppl. Vol. III, N° 3, 1995
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