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LA PREVENZIONE DEL DISAGIO GIOVANILE IN ITALIA: PROBLEMI E PROSPETTIVE

PREMESSA

Dirò subito che affrontare una "questione giovanile" come a sè stante, è un mero artificio espositivo. In realtà la questione giovanile è la questione della società complessiva e del suo modo di rapportarsi a quella parte di sè che sono le nuove generazioni.
I giovani sono insieme l’anello più fragile ed il futuro di una società. Da come una società tratta e considera il suo anello più fragile ed il suo futuro, possiamo trarre molte indicazioni. L’odierna società italiana esprime nei confronti dei giovani una attenzione meramente declaratoria, atta a nascondere la realtà di atteggiamenti non nutritivi e defuturizzati
La società italiana esprime oggi verso i giovani atteggiamenti da "madre infantile", più tesa a "comprare profumi per sè" che a dare attenzione ai propri figli. Essa manca di altruismo (verso i più giovani e i più deboli) e manca di futuro, come se la Storia dovesse finire nei prossimi anni.
Possiamo spiegare questi atteggiamenti in molti modi. Dalla paura della guerra nucleare alla frantumazione della cultura tradizionale (sia borghese sia operaia); dalle trasformazioni epocali prodotte dalla tecnologia elettronica all'incombere della fine del secolo che coincide con la fine di un Millennio; dal dilagare del modello consumistico al prevalere dei mass-media che "presentificano" ogni evento, facendo impallidire il senso della Storia: tutte queste spiegazioni sono ragionevoli, ma non giustificanti.
In realtà possiamo constatare che la società italiana sta sempre più concentrandosi su i meriti e la produttività, la forza e la contrattualità, la conservazione dei privilegi e gli investimenti "a breve": tutte variabili, per natura, anti-giovanili.
Qualche prova? La sparizione progressiva degli spazi e dei tempi per il gioco infantile e giovanile; la assoluta trascuratezza verso il mondo scolastico; la quasi totale assenza di strutture per l’orientamento ed il sostegno ai giovani; la rigidità della struttura e della legislazione occupazionale; la mancanza di grandi progetti e grandi opere: basti questa breve elencazione.
I giovani sono al centro dell’attenzione sociale solo in due casi: come consumatori e come curiosità e problema.
Come consumatori coatti, essi vengono blanditi, manipolati, sedotti (e corrotti), ma soprattutto privati del protagonismo dei produttori. Fino ai trenta anni i giovani vengono tenuti nella condizione del "poppante", la cui sola identità sociale sta nel "succhiare il latte" e la cui dipendenza dal seno materno è totale.
Come curiosità e come problema essi vengono tenuti nella considerazione di "animali esotici", che si guardano con curiosità negli zoo e di cui si parla quando azzannano il guardiano. Ogni cambio di moda e di linguaggio giovanile viene registrato con la precisione dell’entomologo, ogni flebile ruggito di disappunto viene osservato con panico ("i ragazzi dell’85"), ogni aggressività viene interpretata come una riprova di pericolosità ed estraneità al corpo sociale.
Oggi molti concordano sul fatto che si debba fare qualcosa per i giovani. Io penso invece che si debba fare qualcosa per questa società nel suo complesso.
Può sembrare un sofisma, ma non lo è. Affermare la necessità di aggredire il problema dei giovani significa considerare i giovani una questione "a parte", affrontabile con provvedimenti ed istituzioni specializzati. Ecco allora che il problema si crede risolto con un Assessorato alla Gioventù; qualche festival rock pagato dal Comune; due o tre Centri Giovani; e qualche forma di assistenza, travestita da lavoro. Tutto ciò alleggerisce i sensi di colpa e consente alla società degli adulti di restare esattamente come è ora.
Altra cosa invece è considerare i giovani come "sintomo", prodotto dalla complessità e dalla unità della forma sociale. In questo caso il problema può anche venire aggredito con organizzazioni "speciali", ma è chiaro che il loro ruolo non è tanto fornire servizi ai giovani, quanto stimoli alla comunità complessiva. I nuovi assessorati e servizi per i giovani devono avere una funzione integrativa, cioè coprire gli eventuali spazi lasciati liberi dalle istituzioni tradizionali. Ma sono queste, cioè la società, che devono reinterpretarsi alla luce dei bisogni di cui le nuove generazioni sono portatrici. Allora la questione non è più affrontata come da una maggioranza (gli adulti) che si occupa di una minoranza estranea (i giovani); ma al contrario come da un sistema intero ed unitario che si occupa dei suoi rapporti con una parte di sè. Questa impostazione è più difficile perchè rimanda alla necessità di un cambiamento sociale ed istituzionale, irto di difficoltà e conflitti: per questo il pessimismo della ragione la vede perdente. La considera vincente invece l’ottimismo del cuore, che si rifiuta di accettare il baratto fra una "grufolante" sazietà degli adulti di oggi ed una società inquinata, indebitata, ignorante e desensibilizzata degli adulti di domani. Anche in questa sfida sarà giudicata, dalla Storia, la nostra epoca.

1 - I problemi della prevenzione del disagio giovanile.

Fare della prevenzione significa anticipare i fenomeni. Il nostro modo abituale di ragionare ed operare è di tipo "catastrofico". Attendiamo che un evento spiacevole si verifichi più volte, poi cerchiamo di fare qualcosa perchè non si ripeta. E intuitivo che anche in una società semplice, questo modo di agire è molto costoso. Esso infatti rende le catastrofi ineliminabili; anzi, in certo modo le fa assurgere a condizioni per ogni cambiamento.
In una società complessa la cosa è ancora più costosa, perchè i milioni di interconnessioni fra i fatti, rendono lunghissimo e difficilissimo l’intervento post-catastrofe, e dilatano enormemente i tempi e gli spazi fra un’azione e le sue conseguenze. Facciamo due esempi.
Pensiamo ai problemi urbanistici. Alcune città sono state aggredite da veri e propri cancri edilizi; hanno dato vita a quartieri malsani ed invivibili civilmente; hanno prodotto interi ghetti delinquenziali o devianti, fino alla registrazione odierna di un numero intollerabile di decessi per droga o episodi di violenza: ecco la catastrofe. In una società "semplice" un fenomeno del genere potrebbe venire aggredito con azioni di polizia, deportazioni, ricostruzione di capanne in luoghi più salubri. Nella nostra società complessa si tratta di trovare il consenso politico, le risorse economiche, la soluzione dell’inevitabile contenzioso giuridico, il nullaosta burocratico, lo spazio disponibile, i trasporti ed i servizi adeguati, la competenza tecnica: solo dopo che tutto è stato reperito, si può arrivare ad una bonifica del quartiere e quindi ad una riduzione delle cause della catastrofe (droga e violenza). Tempo necessario: dieci, venti anni.
Gli stessi discorsi valgono per i problemi di impatto ambientale o culturale.
In questi giorni è stato alla ribalta il disastro della centrale nucleare sovietica. Una centrale decisa forse dieci anni or sono, i cui guasti dureranno per decenni e si sono estesi in cinque o sei nazioni. In una società semplice si sarebbe al massimo trattato di un incendio provocato da una fornace a carbone: fra la decisione di realizzarla, la catastrofe e l’intervento riparatore non sarebbe passato più di un anno; e l’area della catastrofe non avrebbe superato un quartiere urbano.
Infine pensiamo all’impatto culturale. Per preparare un ingegnere occorrono vent’anni. Quindi occorrono vent’anni per constatare la catastrofe di una struttura scolastica; e per riparare a questa catastrofe quanti altri anni ci vogliono?
La rivoluzione televisiva fa si che per anni generazioni di bambini crescano sotto l’influsso di questo medium. Per verificare una eventuale catastrofe ci vogliono decenni ed altri ce ne vorranno per riparare ad essa.
Un atteggiamento "anticipatorio", cioè preventivo, non è dunque solo richiesto da generose utopie ideologiche, ma è reso necessario per la gestione della complessità, se si vogliono ridurre al massimo i costi umani, sociali ed economici.
Il disagio giovanile è una di quelle catastrofi che possiamo definire a lunga incubazione, a conseguenze dilatate, a elevati costi umani, sociali ed economici. Qualche cinico sostiene che in fondo il disagio giovanile è questione ricorrente e tradizionale: ogni generazione di giovani vive uno stato di disagio.
Ciò è vero in senso esistenziale; meno vero dal punto di vista sociologico e politico. E' vero che in ogni epoca i giovani hanno vissuto un certo grado di disagio, ma la nostra epoca (gli Anni Ottanta) ha particolari peculiarità.
E' la prima volta nella Storia, che i giovani si trovano in stato di disoccupazione o occupazione precaria fino alla soglia dei trenta anni. Non ricordiamo altre epoche storiche nelle quali fosse così difficile trovare una casa, e insieme così abituale essere bombardati da stimoli consumistici. Poche altre epoche hanno visto una trasformazione produttiva e culturale così vorticosa come l’attuale, e poche altre epoche hanno subito simili trasformazioni insieme ad una così vistosa crisi di valori.
Infine ci sembra peculiare degli Anni Ottanta la caduta verticale e simultanea delle tradizionali agenzie educative. Famiglia, Scuola e Oratorio che fino a una ventina d’anni or sono formavano una solida triade educativa sono oggi in evidenti difficoltà. La piazza, la strada ed il bar, da sempre agenzie di socializzazione informale, sono oggi spazi di aggregazione pericolosa e inquietante.
A tutto ciò va aggiunto che le società che ci hanno preceduto, disponevano di un tasso di integrazione e di un potenziale di repressione assai più elevato di quella attuale. Il disagio giovanile che in precedenza poteva essere contenuto e represso, sfocia oggi più facilmente in comportamenti devianti o distruttivi. Ecco perchè la questione del disagio giovanile presenta oggi particolari motivi di allarme.
La causa del disagio giovanile è complessa e multi-fattoriale. Esso è infatti determinato da fattori biologici, familiari, ambientali, economici, sociali e culturali. La sua incubazione è lunga almeno quanto l’intera vita del giovane ed a volte anche più lunga, visto che forte è l’influenza dell’ambiente familiare e sociale che il giovane trova alla nascita. Le sue conseguenze durano spesso l’intera vita del soggetto e spesso si tramandano (per eredità culturale) per generazioni.
I suoi costi umani sono incommensurabili così come i costi sociali. I costi economici sono rilevantissimi e quantificabili, sia pure con qualche sforzo.
Il giovane che non lavora non produce, quindi è un costo da "lucro cessante" per la società. Se studia senza profitto è un costo per l’amministrazione scolastica. Se si droga è un costo per i benefici che arreca alla malavita; poi diventa un costo sanitario; a volte un costo carcerario. Se ruba o danneggia è un costo economico, poi implica costi giudiziari, carcerari, assistenziali.
Il disagio giovanile è uno di quei problemi complessi la cui gestione dovrebbe essere anticipatoria cioè preventiva.
Una gestione preventiva non significa utopia, rivoluzione o sogno, ma miglioramento progettato della concreta qualità della convivenza. Miglioramento nel senso dei bisogni delle nuove generazioni; progettato nel senso di intenzionale, comunicabile, verificabile; concreta nel senso di palpabile, non solo dichiarata o auspicata; qualità, nel senso di valore, non di numero e quantità; convivenza nel senso di vita sociale o di relazione.
Va ricordato che la società può essere ritenuta responsabile solo della vita sociale e non della totale soggettività dei cittadini. Ciò significa che essa può e deve migliorare la convivenza sociale, senza per questo ipotizzare la sparizione del disagio esistenziale individuale, la cui responsabilità è del tutto soggettiva. In altre parole, chiariamo che fare prevenzione per migliorare la qualità della convivenza, non significa proporsi l’obiettivo della felicità collettiva. Significa al massimo diminuire le ragioni sociali della infelicità.
Nella definizione di cui sopra la prevenzione e un azione generale che si rivolge alla comunità/società nel suo complesso, cioè a tutti coloro che non manifestano particolari sintomi di disagio. Esistono anche altre accezioni di prevenzione (secondaria e terziaria) che mi sembrano però troppo simili alla terapia ed all’intervento catastrofico. Inoltre è un’azione mirata a migliorare la convivenza sociale. Cioè a rendere le tradizionali organizzazioni sociali più rispondenti ai bisogni dei giovani, oppure a costruire nuove organizzazioni. Si tratta di un lavoro di trasformazione dell’esistente da una parte, e di un lavoro di innovazione dall’altra.
Fare prevenzione solo con iniziative nuove lasciando immutato il tessuto istituzionale tradizionale, è assolutamente inutile, perchè l’insieme comunitario ha una forza di influenzamento (in negativo o in positivo) maggiore di ogni novità parziale. D’altro canto non sempre è possibile fare prevenzione semplicemente trasformando l’esistente, perchè molti bisogni emergenti non possono essere fatti rientrare in organizzazioni progettate in altre epoche. Basta un esempio per tutti. Realizzare Centri Giovani per soddisfare il bisogno di socialità dei giovani è del tutto inutile, se parallelamente non si avvia un processo di trasformazione della socialità nella scuola. Il peso quantitativo e qualitativo della scuola nella vita di un giovane è paragonabile a quello del lavoro per un adulto: la scuola ed il lavoro sono fra i più potenti influenzatori dell’identità. D’altra parte non è possibile ridurre il problema della socialità giovanile ad una questione scolastica, dal momento che la scuola è una agenzia incaricata di perseguire, oltre al fine educativo, anche quello istituzionale.

1.1 - Contro la colpevolizzazione ed il giustificazionismo

Quando la società si occupa di un suo problema come di un problema parziale, specifico e di categoria, si generalizzano due tipi di atteggiamento che sono due facce della stessa medaglia.
Gli atteggiamenti sono: la colpevolizzazione ed il giustificazionismo. La stessa medaglia è la deresponsabilizzazione dal cambiamento.
La società non vuole assumersi il compito e la responsabilità di trasformarsi, perché ciò, oltre che mutare gli equilibri raggiunti, significa riflettere, discutere, dialogare, attraversare una crisi, accettare l’incertezza, affrontare il conflitto. Tutte cose che in genere le società e gli uomini non amano.
Il primo atteggiamento generato dalla paura della trasformazione è la colpevolizzazione. Si tratta di un meccanismo che mette la vittima in una luce di colpevolezza; cioè che rende un gruppo (in questo caso i giovani) ricettacolo di tutte le colpe che invece andrebbero suddivise. Così i giovani diventano svogliati, privi di valori, abulici, scansafatiche, immaturi, devianti o criminali.
Il ragionamento è antichissimo e primitivo-magico. La società ragiona come colui che, avendo lo stomaco dolorante, attribuisce allo stomaco la colpa del dolore. La colpa richiama subito la punizione, quindi la gamma degli interventi va dalla emarginazione alla derisione, dal rimprovero alla disistima, dalla segregazione alla vera e propria "ablazione". Se non in termini fisici, l’ablazione diventa rimozione psicologica verso certi fenomeni giovanili. "I disoccupati non esistono, perchè chiunque voglia lavorare davvero, trova lavoro... La droga è una cosa che riguarda pochi ‘sballati’... La violenza è una invenzione o una amplificazione dei mass-media". Per seguire l’analogia sanitaria, è come negare il dolore, smettere di mangiare, tagliare lo stomaco. In tutti e tre i casi non è il solo stomaco che muore, ma l’intero paziente. La medicina moderna sa che se lo stomaco fa male, esso non è colpevole. Semmai esso viene considerato il benefico annunciatore di una disfunzione fisico-chimica, alimentare o psicologica. Nessun medico consiglierebbe di negare il dolore, punire lo stomaco col digiuno o l’ingestione di cibi che lo danneggino, o "tagliare via" lo stomaco. Certo, pensare che i giovani siano i soli colpevoli del loro malessere solleva la società da ogni responsabilità: se loro sono i cattivi, non è la società che deve trasformarsi. Il secondo atteggiamento è il giustificazionismo. Tale meccanismo porta a vedere come ovvio e giusto ogni comportamento delle vittime. "I giovani hanno ragione in tutto, perché la società è marcia." Ogni richiesta dei giovani va accolta; ogni loro comportamento è a priori giustificato. Questa logica dà per immutabile la società, anche se in negativo. La società, cioè noi adulti, siamo talmente colpevoli che chiunque la accusa, devia, trasgredisce, è giustificato. In conseguenza, verso i giovani si sviluppa una totale deresponsabilizzazione ed essi vengono del tutto deresponsabilizzati. Essi vengono blanditi, emulati, accontentati ma non considerati partners del cambiamento.
Nella metafora corporea sarebbe come se il corpo, in presenza di dolori allo stomaco, si flagellasse per punirsi di averli causati con un’errata alimentazione.
Il giustificazionismo sembra più generoso della colpevolizzazione, ma risponde alla stessa logica difensiva ed abdicatoria. In realtà, esso è assai crudele, perchè non permette nè la rivolta nè il pentimento: cioè priva i "giustificati" del potere di cambiare.

1.2 - Il Welfare è morto, seppelliamolo.

Nella accezione nordeuropea"Welfare State" significa "Stato di Benessere", e indica uno Stato che si interessa del benessere dei cittadini "dalla culla alla tomba". La traduzione italiana del termine è diventata "Stato Assistenziale". E il termine non è mutato per caso. Sta proprio a indicare che l’interpretazione italiana si ferma alla fornitura di assistenza, disinteressandosi dell’effettivo benessere degli utenti. Ora questa idea sta morendo, principalmente per motivi economici. L’assistenza provoca infatti bisogno di ulteriore assistenza, e la voragine del debito pubblico non riesce a seguire il ritmo. Qualcuno se ne lamenta e cerca qua e là di difendere la logica assistenziale, facendola rispuntare sotto diversi travestimenti.
Nessuno nega che l’assistenza sia utile, ma solo come emergenza o come intervento transitorio o come sostegno eccezionale. Generalizzare la logica assistenziale implica che lo Stato si occupi progressivamente di tutto, mentre il cittadino si occupa solo di "imparare a chiedere": il che è l’essenza dello Stato Totalitario.
Ciò che appare come massima nutritività (l’assistenza) si rivela ben presto come massima rapacità. Il cittadino è infatti privato dell’autonomia, del protagonismo, della responsabilità e dell’azione. Lo Stato nutrice diventa vampiro.
Forse è proprio il sottinteso totalitario, a rendere il Welfare difficile da seppellire. Il disagio giovanile è anche difficoltà ad "esserci", agire da protagonisti, autonomi ed a volte conflittuali. Lo statalismo soffocante degli Anni Settanta ha fatto di tutto per offuscare i bisogni di autonomia, differenziazione, protagonismo dei giovani. Seppellire il Welfare significa fornire ai giovani (ma non solo a loro) gli strumenti per produrre la loro identità sociale; mentre il Welfare State significa, in sostanza, fornire ai giovani l’identità che per loro decide il potere.
Un problema grossissimo è quello di far uscire gli Amministratori locali dalla logica del Welfare. Tale uscita infatti è non solo osteggiata da loro stessi, che senza il controllo dell’assistenza temono di perdere il potere (il che è vero, se si intende il potere come controllo; meno vero se si intende il potere come "potenziale"); è accettata con difficoltà anche dai cittadini che si sono assuefatti alla "droga" del Welfare. Inoltre, esiste un altro rischio nel processo di uscita dal Welfare. E cioè il ritorno al vecchio liberismo, che vede lo Stato come semplice arbitro delle forze in campo, cioè sostanziale alleato delle più forti forze in campo.
La sepoltura del Welfare non può essere ritardata, nè può significare il recupero della alleanza fra potere pubblico e ceti dominanti. Essa deve essere realizzata con coraggio, ma anche con la chiarezza di idee necessaria. Una chiarezza che impone al potere pubblico un ruolo di promozione, coordinamento, sostegno ai più deboli, controllo.
Nel caso dei giovani, l’assistenzialismo non va sostituito con il disinteresse; ma con una "politica dell’attivazione e dei contenitori". Il potere pubblico deve attivare risorse, offrendo strumenti, cornici, contenitori al cui interno le energie possano svilupparsi in autonomia.
Un altro rischio, alla sepoltura del Welfare, è l’appalto, da parte del potere pubblico, dei problemi giovanili. I problemi della collettività sono della collettività; non si possono appaltare. L’attuale ondata privatistica, unita all’esaltazione per il volontariato, rischiano di vedere uno Stato che, per uscire dal totalitarismo del Welfare, delega un potere (anch’esso totalizzante) a gruppi ed organizzazioni private. Il che per i giovani significa passare da una sottomissione allo Stato ad una soggezione a gruppi privati ideologicamente orientati. Questa è una ipotesi che sollecita la voracità dei Partiti italiani. I quali, perdendo con la morte del Welfare il controllo sociale che l'assistenzialismo consentiva loro, vedono di buon occhio che il controllo venga attribuito alle cosiddette "organizzazioni giovanili storiche", che sono appendici dei Partiti. Occorre dunque riaffermare che i giovani hanno diritto ad un loro protagonismo autonomo, svincolato da ipotesi di controllo e manipolazione da parte del potere pubblico o di ogni altro potere privato. Anzi, è dovere del potere pubblico offrire ai giovani una tutela da ogni forma di controllo e di deprivazione.

1.3 - Sperimentalismo, precariato e consumismo dei progetti.

Occuparsi dei giovani è di moda, fra gli Amministratori locali. Ciò porta ogni Assessore a inventarsi il suo bravo progettino "dimostrativo": il cui unico scopo cioè è dimostrare come l’Assessore e/o la Giunta siano sensibili.
Dal momento che in nove casi su dieci non c’è alcuna reale intenzione di fare una azione efficace, la quale (come abbiamo visto) porterebbe a mutamenti nell’intera comunità, i progetti dimostrativi si presentano come sperimentali, precari e improntati allo stile ‘‘usa e getta’’.
Lo sperimentalismo è venduto come serietà e prudenza. L’iniziativa viene presentata come sperimentale in modo che dia dell’Assessore una immagine di non avventatezza unita ad un’immagine di esploratività progressista (chi sperimenta se non i ricercatori avanzati?). Nella pratica vengono presentate come sperimentali iniziative che un briciolo di cultura sociale vedrebbe come tradizionali. Solo l’ignoranza o la malafede possono far definire oggi un Centro di Informazione Giovani come sperimentale. Sono infatti 30 anni che ne esistono in Francia, almeno 10 in Germania, e almeno 5 in Italia.
Non parliamo poi dei Centri di Aggregazione giovanile, che qualche Comune presenta come sperimentazione d’avanguardia (Milano presenta il suo unico Centro Giovani in questo modo). Qui le sperimentazioni risalgono al secolo scorso e si trovano in tutte le regioni del mondo occidentale. La cosa vergognosa è che spesso questi Assessori ultra-sperimentali-prudenti accusano la scuola di immobilismo! Al confronto della maggior parte degli Enti locali italiani (qualche eccezione c’è, per fortuna) la scuola può essere considerata un luogo di rivoluzione permanente.
Se dietro l’immagine sperimentale ci fosse solo l’ignoranza, il peccato sarebbe perdonabile. Si tratterebbe infatti solo del fatto che gli Enti locali non sanno cosa accade nel mondo e vogliono muoversi con prudenza. Qualcuno poi si giustifica dietro lo "specifico locale", per cui nessuna iniziativa fatta in altri Comuni (non parliamo di altre Regioni o Nazioni) si può trasferire nel proprio. E sia!
La verità è che non si tratta solo di ignoranza o di corporativismo localistico. La verità è che ciò che si definisce sperimentale è solo "precario". Nel gergo scientifico la sperimentazione implica maggiori sforzi di progettazione, maggiori risorse, misurazioni e controlli. Nel gergo degli Enti locali sperimentazione significa: progettazione selvaggia, risorse ridotte al minimo e comunque di qualità scadente, nessuna misurazione e nessun controllo se non quello delle tessere di Partito.
Le scadenze non sono quelle dettate da esigenze di qualità del progetto, ma quelle amministrative. A volte si inventa un progetto per spendere fondi residui di bilancio; altre volte si interrompe prematuramente una progettazione per entrare nell’ordine del giorno della tal Giunta. Quali operatori vengono imbarcati nei cosiddetti progetti sperimentali? In genere i giovani senza esperienza nè competenza, che accettano ogni condizione di precariato e di sfruttamento. Lo stanziamento in genere è meno che annuale, in modo che la progettualità sia a breve gittata.
Perchè tutto ciò non appaia nella sua luce vergognosa, l’Ente locale poi si tutela con una bella ricerca affidata a qualche compiacente barone universitario. Questo "vestito" serve a difendere l’Assessore da accuse di scarsa serietà. Non importa se la ricerca finirà in un cassetto, senza che nessuno la legga o la utilizzi. Finita una ricerca se ne può fare un’altra, in un processo senza fine ma fatto di segmenti brevi ed effimeri. D’altro canto la logica della politica-spettacolo, che si è impadronita della gran parte degli Enti locali italiani a prescindere dal colore delle Giunte, impone che i progetti sociali siano come i prèt-a-porter: che durano una stagione, si usano e si gettano. Questo consumismo delle iniziative consente agli amministratori di lanciare ogni anno un nuovo progetto in modo da tenere sempre desta l’attenzione del "mercato politico". Proprio come le imprese dei prodotti di largo consumo, che prestabiliscono una durata breve della vita del prodotto in modo da poter dilagare con frequenza sul mercato.
Negli ultimi 15 anni le uniche iniziative per i giovani che si siano stabilizzate e generalizzate sono quelle "effimere". Esse infatti nella loro stabilità consentono di rinnovare ad ogni stagione i "prodotti" dell’Ente locale.
Bastano due prove significative. In quindici anni circa di Welfare State si contano sulle dita i Comuni che hanno creato spazi e strutture fisse per i giovani; e nessuna professione nuova è stata stabilizzata da questi servizi. Animatori, pedagogisti, psicologi, funzionari degli assessorati sociali sono tuttora "lavoratori-fantasma", negli Enti locali.

1.4- Basta coi servizi "porta aperta".

Gli Enti locali più generosi hanno perseguito la strada dei servizi "porta aperta", cioè dei servizi a disposizione degli utenti che li richiedono e li frequentano.
Una logica di passività che è la meno scomoda, faticosa e rischiosa. La presunzione di questi servizi è quella di aver compreso i bisogni sociali e di presentarsi come risposta ad essi. Gli utenti dovrebbero capire al volo che i propri bisogni possono essere soddisfatti dai servizi che l’Ente locale ha aperto per loro.
I risultati di questa impostazione sono sotto gli occhi di tutti. La gran parte dei servizi realizzati è sottoutilizzata, e contemporaneamente non c’è nessun fenomeno sociale negativo (devianza, emarginazione, isolamento) che sia stato ridotto da questi servizi. I pochi servizi "porta aperta" che funzionano, servono in genere a ceti piccolo borghesi che li usano come integrazione di processi di acculturazione e socializzazione già avviati autonomamente. Il caso più eclatante di questa logica è quello delle biblioteche. Le difficoltà d’uso delle biblioteche (orari, iscrizione, prestiti, consultazione, ecc.) sono tali che solo un ceto colto può farne uso. E non solo un ceto colto, ma anche discretamente abbiente. Il proletariato intellettuale, dopo il completamento degli studi, è troppo preso dai doppi e tripli lavori precari, per poter accedere a biblioteche aperte solo in una parte dell’orario lavorativo.
Non parliamo delle barriere architettoniche che impediscono l’accesso ai servizi di anziani ed handicappati; delle barriere linguistiche che ostacolano gli analfabeti, gli immigrati di colore o le minoranze etniche; delle barriere culturali che frenano ceti socialmente emarginati o gruppi divergenti.
I servizi "porta aperta" vengono frequentati da utenti non troppo bisognosi, e gli utenti veramente bisognosi di certi servizi, non li frequentano. Fino ad arrivare a certi paradossi (a Milano è successo!) come l’espulsione da certi servizi di utenti "non abbastanza per bene". Si realizzano centri di aggregazione giovanile con lo scopo dichiarato di favorire l’integrazione e la prevenzione della devianza, poi si allontanano i giovani devianti o non abbastanza integrati.
Occorre dunque stabilire che i servizi "porta aperta" sono una eccezione o la fetta minore di un progetto di intervento sociale, il cui asse deve essere costituito da progetti mirati "porta a porta".

1.5- Il settorialismo è il nemico da battere

Sono pochissimi gli Enti Locali che riescono a fare progetti non settoriali. i progetti sono "targati" da un Partito o da un Assessorato, e quindi condannati a essere settoriali. Invece ogni intervento sociale dovrebbe avere come base la comunità territoriale, e vedere lo sforzo congiunto di tutti gli Assessorati limitrofi. Un problema sociale non può essere tagliato a fette secondo le competenze assessorili. Occorre pubblicizzare fra i cittadini elettori che tutte le Giunte incapaci di presentare ed attuare progetti inter-assessorili non sono degne di essere rielette: così forse gli Amministratori capirebbero!
Il problema dei giovani comprende l’istruzione, il tempo libero e lo sport, la cultura, il turismo, ed anche l’assistenza, la sanità ed il lavoro. Un progetto serio per i giovani dovrebbe avere la cooperazione attiva di 6/7 Assessorati, mentre è raro trovare progetti che vedano impegnati due Assessorati insieme.
Qui ci sono gravi colpe ai livelli più bassi dell’amministrazione dello Stato (i Comuni) ma anche ai livelli più alti (Regioni e Stato). Non sarebbe infatti difficile ancorare certi finanziamenti sociali alla presentazione di progetti interassessorili.
Purtroppo però l’integrazione fra Assessorati della stessa Amministrazione è condizione indispensabile ma non sufficiente. Gli Enti locali da soli non bastano ad affrontare la complessità moderna.
E necessario che tutti i servizi che insistono sulla stessa comunità, a prescindere dalla amministrazione alla quale appartengono, trovino una "integrazione strategica". Il problema dei giovani, come altri problemi sociali, non può non essere affrontato in modo armonico e coordinato da Comune, Scuola, Servizio Sanitario Nazionale, Provincia, Ministeri. Molti Enti locali, a ragione, lamentano la scarsa cooperazione che trovano in servizi di altre amministrazioni, ma il guaio è che anche queste altre amministrazioni lamentano, non a torto, la scarsa cooperazione degli Enti locali. È il secolare gioco degli italiani: essere divisi e poi incolparsi a vicenda. Il lato comico della faccenda è che nè gli Enti locali nè le altre amministrazioni hanno la "faccia pulita", perchè al loro interno non sono meno divisi che con l’esterno.
I diversi Assessorati di un Comune non cooperano; le scuole di diverso ordine e grado non cooperano; i servizi della stessa USL non cooperano. È il taylorismo applicato al sociale. Proprio alle soglie del Duemila, quando le imprese stanno seppellendo il taylorismo che hanno scoperto inadatto ad affrontare la complessità, gli Enti ed i servizi pubblici ne sono trionfalmente impaniati.

1.6- La vecchia normativa del lavoro e della produzione ostacola i giovani.

Questo tema è ormai arcinoto per quanto concerne il lavoro e la produzione "privati". Le rigidità normative e sindacali sono indicate da quasi tutti come una delle cause della disoccupazione attuale.
La cosa è meno nota e discussa nel settore pubblico e sociale. A livello giovanile e sociale la mia impressione è che il lavoro effettivo sia tanto, ma scarsa l’occupazione. Si tratta infatti di lavoro nero, precario, dai tratti nuovissimi, creativamente inventato, non regolamentato da leggi, nè preparato da scuole.
Un esempio, fra gli altri. Ho calcolato che almeno 500.000 giovani ogni anno svolgono per un breve periodo una prestazione in campo educativo-ricreativo-assistenziale: dalle colonie per minori ai villaggi turistici; dai progetti effimeri urbani ai campi robinson; dal turismo all’estero alle discoteche; dalle comunità per tossicodipendenti ai centri di riabilitazione per handicappati; dalle settimane azzurre per anziani ai campeggi per adolescenti; dalle palestre ai centri sportivi. Una gran parte di questi servizi che usano lavoro giovanile (nero o precario) è di proprietà di Enti pubblici o sociali. Se questa mole di lavoro fosse ordinata con leggi apposite, scuole, contratti sindacali, cooperative, consorzi ecc., il comparto socio-educativo-ricreativo-assistenziale potrebbe fornire circa 100.000 posti di lavoro effettivo.
Un discorso analogo si potrebbe fare per altri comparti: da quello moda-arte-spettacolo, a quello dell’informazione (editoria, radio, tv); da quello archeo-culturale-turistico (v. i "giacimenti culturali") a quello delle nuove tecnologie (informatica, energia, telecomunicazioni) a quello naturalistico-ecologico.
La struttura sociale e produttiva si sta trasformando con una rivoluzione straordinaria: professioni, ordinamenti, cultura del lavoro tradizionale, sono inutilizzabili. Ne consegue che si esprimono professioni, culture, ordinamenti informali ("neri o sommessi): ecco perchè il lavoro è tanto, le occupazioni poche.
La soluzione di questo problema non sta solo nell’Ente locale, ma richiede un’azione combinata di più Enti pubblici e privati.
Tuttavia qualcosa di meglio anche gli Enti locali possono farlo. Per esempio, basterebbe a creare occupazione, che l’Ente locale si impegnasse per più anni a convenzionarsi con le stesse cooperative; che promuovesse corsi o scuole di formazione; che valutasse nei concorsi dando un punteggio preferenziale a chi ha frequentato certe iniziative di formazione; che usasse gli stessi operatori per mansioni simili nel corso dell’anno.
Non è raro trovare invece Enti locali che offrono solo convenzioni semestrali o annuali, impedendo alle cooperative di pianificarsi; che promuovono corsi per figure professionali che non trovano lavoro (per esempio parrucchieri), ma non corsi per le figure di cui poi si servono (per es. animatori del tempo libero); che fanno corsi per preparare una certa figura professionale, poi assumono operatori che non li hanno frequentati; che chiamano dieci giovani per il periodo di Carnevale ad animare un Quartiere, poi altri dieci per organizzare i campi estivi per ragazzi, poi altri dieci per le settimane azzurre per gli anziani.
Questi non sono esempi teorici e provocatori: per ciascuno di essi potrei indicare le città ed i nomi degli Assessori. E lo farei se non pensassi che si tratta di esempi alla portata di ogni località italiana.

1.7- Chi valuta cosa e come?

L’aspetto più squallido del Welfare State all’italiana è l’alone di "elemosina" che circonda molti servizi territoriali. Sembra quasi che i gestori di certi servizi dicano ai cittadini: "Ma come? già vi diamo un servizio, non vorrete anche che funzioni?". L’efficienza è un mito, ma anche l’efficacia lo è.
Un servizio non è valutato per i risultati che produce, in confronto alle risorse impiegate (efficienza) o rispetto ai bisogni (efficacia). Un servizio è valutato sulla base degli umori politici, il che in Italia significa degli umori degli amministratori e dei loro amici, parenti, elettori.
Un Centro Giovani può anche non produrre nulla, ma deve stare attento a che i figli dell’Assessore in carica si divertano. Una biblioteca può anche prestare due libri alla settimana, ma deve tremare se un portaborse partitico non trova al bancone il suo settimanale preferito. Un programma di prevenzione può essere efficacissimo per la comunità, ma se l’ha varato un Assessore il cui Partito litiga con i partners, sarà ostacolato o bloccato.
Insomma umori, rapporti di forza fra gruppi di potere, scambi al mercato politico ed a volte economico, clientelismo: sono i criteri di valutazione più diffusi per i servizi ed i programmi territoriali. Così come avventurosamente nascono, i servizi casualmente muoiono.
In questo pernicioso circolo vizioso c'è una impressionante collusione fra amministratori ed operatori. Gli amministratori non fissano criteri di valutazione pubblici per non rischiare critiche; gli operatori non chiedono criteri formali di valutazione per evitare controlli. La speranza di tutti è che la manipolazione, l’amicizia personale e la appartenenza ideologica possano sanare ogni inefficienza ed ogni sperpero. Il primo danneggiato da questa situazione è ovviamente l’utente che vede i servizi da lui stesso pagati e a lui diretti, non porsi alcun problema di efficienza e di efficacia. Il secondo danneggiato è l’operatore, che, essendo l’anello più debole dell’istituzione, sarà usato come capro espiatorio in ogni momento critico. Funzionari di grado elevato ed amministratori non sono mai puniti per i loro errori; se sono puniti, è solo per motivi lontani dalla qualità dei loro progetti e dei loro interventi.
Per la verità nemmeno i premi vengono dati sulla base di valutazioni di efficacia o di efficienza. Quando nella vita amministrativa si dice che il tale funzionario o Assessore "ha fatto bene, e andrebbe premiato", non lo si dice mai perchè ha prodotto risultati ma perchè è stato fedele ed ossequioso.
Il risultato in termini complessivi è il decadimento progressivo della qualità dei servizi. Nei casi in cui i servizi raggiungono i loro obiettivi (ma chi può dirlo?) ciò si deve al masochismo di alcuni che pagano di persona. E pagano di persona perchè non sono in grado di provare che i servizi funzionano, se non con le loro impressioni. Le quali impressioni, in quanto tali, valgono quanto quelle contrarie.
Occorre dunque promuovere una cultura della valutazione, arrivando a dichiarare pubblicamente ed anticipatamente in quali casi sarà giudicato efficace/efficiente un servizio, e con quali modalità ciò sarà rilevato.

1.8- Dove sono gli esperti, i managers e le idee nuove?

Se nelle scienze umane e sociali si sconta una paurosa arretratezza generale, nel settore dei giovani siamo all’età della pietra. E' vero che per l’ingegneria civile si spende in ricerca, formazione, legislazione una somma 1000 volte superiore che per l’ingegneria umana, ma è inutile piangere per questo.
La realtà è che oggi siamo in una carenza spaventosa di risorse professionali per coprire i servizi per giovani. Gli psicologi, per esempio, che si occupano dei giovani e adolescenti sono pochissimi; gli animatori di bambini sono cento volte più numerosi di quelli che si occupano di giovani; i funzionari degli assessorati alle finanze o ai lavori pubblici sono più numerosi, più esperti, più colti di quelli addetti agli assessorati per i Giovani o per la Cultura.
Ne consegue che i progetti ed i servizi per i giovani mostrano una notevole carenza di solidità e creatività. In ogni biblioteca si trovano più testi sul calcio o sui cavalli, che sui giovani ed i servizi sociali.
Il circolo è viziosissimo e va rotto ad ogni costo. Dobbiamo impegnare più risorse umane per i giovani: più educatori, animatori, psicologi, sociologi, funzionari comunali.
Gestire un Centro Giovani è più difficile che gestire una anagrafe: ma per questa i Comuni usano funzionari-managers; per quelli, giovani disoccupati precari.
Conosco decine di progetti Giovani che sono falliti soprattutto per le carenze mostrate dalla burocrazia comunale nel gestirli. Infine, diciamolo, anche noi cosiddetti esperti dovremmo produrre idee nuove. I giovani e la fine del secolo pongono nuovi problemi che noi ci ostiniamo ad affrontare con la vecchia e rassicurante strumentazione di idee. Dobbiamo pensare in modo nuovo e per fare ciò dobbiamo costruire nuovi spazi, organismi ed occasioni che ci consentano di farlo.

2 - Le prospettive

Dopo aver analizzato i problemi, nella loro cruda gravità, le prospettive non sembrano rosee. Non è improbabile che la questione giovanile sia lasciata maturare (o marcire) da sola, senza interventi programmati. In fondo questo atteggiamento messianico salta fuori in tanti problemi (v. energia nucleare, governo dell’economia, ecc.): perchè nella questione giovanile dovrebbe essere diverso? Pur tuttavia chi ha a cuore il futuro e chi sente le responsabilità della Storia, non può sottrarsi almeno alla speranza ed al dovere etico di un intervento. Se per prospettive intendiamo "ciò che pre-vediamo" non sono ottimista; se intendiamo "ciò che sentiamo il dovere di fare", allora si apre qualche spiraglio di luce. Qui, come in altri problemi, siamo in grado di dire qualcosa su ciò che dovremmo fare. Ecco un elenco.

2.1- Considerare il disagio dei giovani come sintomo del disagio della società nel suo insieme

Quindi contenere le iniziative "specializzate", tendenti a isolare il fenomeno; allargare l’orizzonte degli interventi all’intero tessuto comunitario. Ogni istituzione che ha per utenti i giovani dovrebbe chiedersi se quello che sta facendo risponde in pieno ai bisogni delle nuove generazioni. L’intera comunità dovrebbe chiedersi se il disagio che i giovani esprimono o vivono non sia un segnale della "malattia" collettiva.

2.2- Uscire dalla logica della colpevolizzazione e della giustificazione

Cioè iniziare a considerare i giovani come partners del cambiamento. Partners ideali in quanto essi iniziano con noi adulti un cambiamento, che poi continueranno, come adulti, insieme ai futuri giovani. I giovani non hanno tutta la colpa del loro disagio, ma è vero che non tutti i loro comportamenti sono giustificabili. Forse il problema non è quello della "colpa", ma è quello del cosa fare tutti insieme, in concreto.

2.3- Avviare sperimentazioni brevi e controllate, poi valutarle ed istituzionalizzarle

Questo vuol dire investimenti, attenzioni, trasparenza dei giudizi, sistemi di valutazione formalizzati. Significa anche basta con l’effimero, il giorno per giorno, il lavoro nero e precario, le risorse raccogliticce, il dominio degli umori.

2.4- Considerare l’Ente pubblico come stimolatore, controllore, coordinatore

L’Ente pubblico come contenitore e non come produttore di contenuti, è il concetto cardine della democrazia moderna. Esso, quando esce dai confini del suo ruolo, rappresenta pericolosamente il totalitarismo. E i confini del suo ruolo, a ben vedere sono vasti ed importanti. L'Ente pubblico deve stimolare le risorse civili affinchè si esprimano al meglio del loro potenziale; deve coordinare le diversità in vista di fini largamente consensuali; deve controllare il rispetto delle regole. In molti casi l’Ente pubblico può assumere un ruolo "vicariante", intervenendo laddove le risorse civili lasciano scoperti dei bisogni. Ma ciò che il pubblico-politico non deve mai fare è sostituirsi al civile, fino a comprimerlo e devitalizzarlo.

2.5- Sostenere i gruppi e le associazioni giovanili (anche quelle non ancora nate)

Esse sono il civile e dunque l’Ente locale deve stimolarle, coordinarle, controllarle. Magari aiutarle con strumenti-contenitori (spazi, attrezzature, agevolazioni), mai imponendo loro dei contenuti. Tuttavia va sottolineato come i problemi della comunità nel loro complesso non possono essere delegati o appaltati in toto: i gruppi vanno dunque ricondotti all’interesse generale. Inoltre, ricordare che allo stesso modo dei vecchi gruppi, vanno aiutati i gruppi "ancora da nascere". La società civile è fatta di aggregazioni storiche, ma anche di aggregazioni potenziali che vanno stimolate.

2.6- Investire in strutture e attrezzature, ma ancor più in risorse umane.

La logica delle "cattedrali nel deserto", demolita nel settore produttivo, rispunta in quello sociale. Palazzi, centri sportivi, residenze turistiche, palestre, centri polivalenti, o teatri vengono costruiti spesso senza alcuna pianificazione delle risorse umane che dovranno farli vivere. Sembra paradossale, ma in molti Enti locali è più facile investire 3 miliardi in una mega-struttura, piuttosto che 200 milioni per la formazione di operatori. Risultato: molte strutture sono sotto o mal utilizzate.

2.7- Fare progetti poliennali e pluri-assessorili

Un progetto di prevenzione non può che avere un respiro di almeno 3 anni, in fase sperimentale. Al di sotto di questa dimensione non parliamo di progetti, ma di tentativi.
Allo stesso modo ha poco senso fare un progetto-giovani senza il coordinamento attivo di più Assessorati. Bisogna arrivare al blocco dei finanziamenti per quei progetti che non sono poliennali e pluri-assessorili.

2.8- Diminuire i servizi "porta aperta" e aumentare i programmi "porta a porta"

I servizi "aperti al pubblico" sono di fatto una integrazione di processi che utenti non marginali hanno già avviato autonomamente (socializzazione, acculturazione, salute psico-fisica). Chi frequenta infatti la biblioteca comunale, il Centro Giovani o la palestra pubblica? Chi è già sensibile a questi bisogni e chi ha già qualche strumento per avvicinarsi ai servizi. Le fasce più deprivate, marginali, sottoculturali (cioè le più bisognose dei servizi) sono "aggredibili" solo con programmi mirati "porta a porta".

2.9- Occorre chiamare in causa le istituzioni nazionali e le forze imprenditoriali

Gli Enti locali hanno tante responsabilità ma è anche vero che non possiamo chiedere ad essi ciò che non chiediamo ad istituzioni assai più forti. La Scuola, il Servizio Sanitario Nazionale, le Forze Armate, la Chiesa possono fare molto di più di quanto fanno; come anche le organizzazioni imprenditoriali, commerciali ed artigiane.

2.10- Occorre costruire una generazione di esperti, operatori e managers

Gli Enti locali, ma anche la Formazione Professionale e l’Università devono avviare piani di lunga durata per la formazione di operatori a tutti i livelli, capaci di agire nel settore dei giovani e della prevenzione.

2.11- Occorre approntare laboratori di idee nuove

Il settore della prevenzione e dei giovani è quello più povero nel panorama editoriale; ci sono Centri Studi sui temi più disparati, ma nessuno sui giovani e la prevenzione. Un problema nuovo come quello della prevenzione merita la esplorazione di nuovi modi di pensare e di intervenire.

3.Qualche proposta (relativamente) nuova

Una relazione può essere accusata di astrattezza e genericità. Stimoli e suggestioni critiche, di solito non bastano a motivare il cambiamento. Ecco dunque qualche proposta concreta, magari non del tutto nuova sulla carta, ma in pratica nuovissima.

3.1- Una nuova legislazione per le nuove professioni

La legislazione del lavoro e delle professioni è certo uno dei vincoli maggiori alla prevenzione del disagio giovanile. Sono regolatissime professioni ormai defunte, mentre non sono regolate professioni emergenti. I giovani che esplorano nuove dimensioni lavorative non godono di alcuna tutela; il sistema degli Ordini professionali è chiuso alle innovazioni. Occorre dunque un grande ripensamento del sistema del lavoro e delle professioni, nel quale impegnare forze nazionali e locali, sindacati e imprenditori, ricercatori ed operatori di base.

3.2- Una legislazione speciale per le nuove forme aggregative

Il nostro Codice è interessato alla regolazione delle società di lavoro e di profitto, mentre è quasi muto per le aggregazioni sociali, culturali, assistenziali, volontarie. Associazioni, cooperative di solidarietà, gruppi di volontariato, cooperative autogestionarie, aggregazioni professionali sono nuove forme a cavallo fra la produzione e la aggregazione sociale moltiplicatesi negli ultimi anni e del tutto prive di regolamentazione. Questa situazione che appare di estrema libertà, significa nei fatti massima debolezza e precarietà. Una legislazione di tutela è ormai essenziale.

3.3- Riforme per il Servizio di leva

Il periodo del servizio militare è piuttosto lungo, inoltre cade in un periodo delicato che oggi possiamo considerare post-adolescenziale. E una grande occasione di acculturazione e socializzazione, che invece diventa una esperienza inutile o tragica. Occorre dunque trasformare il servizio di leva arricchendolo di valenze educative. Prima ipotesi: allargare il servizio di leva anche alle donne. Una femminilizzazione avrebbe certamente effetti socializzanti e spingerebbe l’organizzazione militare verso dimensioni più umane. Seconda ipotesi: arricchire il periodo di leva con attività di formazione professionale obbligatoria. Corsi medi o brevi di varia natura potrebbero fornire ai giovani di leva una formazione che non hanno acquisito a casa oppure una integrazione formativa. Terza ipotesi: servizi di tempo libero e di consulenza psico-socio-sanitaria. Iniziative di tempo libero concertate fra caserma e Ente locale, unite a servizi di consulenza dentro la caserma potrebbero offrire ai giovani una seria occasione di crescita culturale e sociale.

3.4- Interventi delle UU.SS.LL. nelle Scuole Superiori

È oggi diffuso l’intervento del servizio Socio-sanitario nelle Scuole dell’Obbligo, come consulenza ai docenti o trattamento dei casi particolari (handicappati, caratteriali, ecc.). Le Scuole Superiori invece, la cui utenza è proprio quella più a rischio per fenomeni di devianza, sono del tutto prive di servizi socio-sanitari.
Ci vorrebbe una legislazione nazionale, ma potrebbero bastare accordi bilaterali fra Scuola e USL oppure iniziative autonome delle Scuole Superiori. Lo psicologo e il pedagogista nella Scuola Superiore potrebbero fornire consulenze agli insegnanti, sostegno ed orientamento ai giovani, informazione sui sistemi psicologici e sanitari.

3.5- Servizi ed attrezzature fornite dai Comuni alle aggregazioni giovanili

Molti gruppi giovanili hanno vita difficile a causa di una legislazione a volte repressiva a volte inesistente. Sono problemi che non si superano con qualche elemosina a pioggia ed una tantum, magari anche vincolata ad asservimenti ideologici o clientelari. Gli EE.LL. potrebbero allestire "spazi di servizio" per i gruppi e le associazioni, nei quali i giovani aggregati trovino una sede, una segreteria, uno spazio-magazzino, delle sale-prove e delle sale-riunione, un centro stampa, da usare a costi minimi o nulli (eventualmente ancorati alle attività che i gruppi esprimono). Oltre a queste strutture gli EE.LL. potrebbero fornire ai gruppi delle facilitazioni per la pubblicità delle loro iniziative (affissioni, spedizioni in abbonamento postale), e dei servizi di consulenza giuridica, fiscale, amministrativa, organizzativa.

3.6- Ogni Regione deve attivare una Scuola per Operatori Giovanili

E' assolutamente scandaloso che a tutt’oggi non esista in nessuna Regione un percorso formativo professionale per figure come gli animatori del tempo libero, i gestori di Centri sportivi e ricreativi, i funzionari o i managers di organizzazioni per i giovani. Se ogni Regione chiudesse un Centro di Formazione per Parrucchieri e ne varasse uno per Animatori Socio-Culturali o Socio-Ricreativi, avremmo fatto un passo avanti verso il 2000. Lavorare coi giovani per la prevenzione è un mestiere difficile, che richiede una formazione non inferiore a quella richiesta ad assistenti sociali, maestri, o professori di ginnastica.

3.7- Interventi sperimentali di bonifica di Quartieri "a rischio"

Se una decina di Comuni avviasse una sperimentazione triennale in Quartieri difficili, in vestendo risorse serie per almeno un triennio, otterremmo un accumulo di esperienza esportabile e generalizzabile. Servirebbe una somma non superiore ad un paio di miliardi, cioè equivalente a quella che spende in un solo anno un medio Comune per iniziative effimere.

3.8- Una Associazione ed una Rivista nazionale

Infine una idea per gli operatori del settore giovanile e preventivo. Servirebbe una associazione che raccolga e promuova le esperienze di prevenzione del disagio giovanile; nella quale possano raggrupparsi operatori ed amministratori interessati al tema. Con un simile strumento si potrebbe lanciare finalmente nel Paese una "cultura della prevenzione". Magari affiancandola con una rivista specializzata di settore.

 

*Estratto da MINISTERO DEGLI INTERNI/A.N.C.I ./PROVINCIA DI PESCARA/C.M.A.S. - U.L.S.S. PESCARA - ATTI DEL SEMINARIO NAZIONALE DI STUDIO  RUOLO ED ESPERIENZE DEGLI ENTI LOCALI NELLA PREVENZIONE DEL DISAGIO GIOVANI, PESCARA 20/22 MARZO 1986. ENTE ORGANIZZATORE COMUNE DI PESCARA, PATROCINIO REGIONE ABRUZZO, DOTT. GUIDO CONTESSA - A.R.I.P.S. DI BRESCIA- pag. 29-45