Formazione: esperienze e proposte
Guido Contessa, da “Animazione Sociale” N. 44-45 - Marzo - Giugno 1982


1. Premessa

Stiamo cercando in questa Conferenza di misurare il grado di “maturità” raggiunto dall’animazione italiana. Se dobbiamo giudicare dal sistema forma­tivo, la conclusione è sconsolante. A tutt’oggi possiamo dire che non esiste in alcuna Regione un esempio di curricolo minimo unificato, e nella maggio­ranza delle Regioni non esiste nulla o quasi. In questa sala ci sono circa 200 persone di diverse età che operano nell’animazione di ben. 7/8 settori: quanti dei presenti possono dire di avere una formazione di base come animatore? Purtroppo l’animazione, nei suoi 20 anni di vita, non e ancora riuscita ad ottenere dagli Enti pubblici alcuna iniziativa di formazione di base. E non è riuscita nemmeno a trovare un consenso al suo interno su cosa sia e come debba essere fatta questa formazione di base. Speriamo che questa sia un’oc­casione di avanzamento.

Nella storia dello sviluppo di tutte le professioni e mestieri in senso moder­no (cioè in qualche modo collegati col sistema industriale) esiste un rapporto circolare fra insediamento della professione nel panorama occupazionale e formalizzazione del curriculo scolastico specifico.
Ogni nuova professione nasce sulle orme di bisogni sociali, che le professio­ni esistenti non riescono a soddisfare. Tale nascita e solitamente accompagna­ta da incertezze e conflitti sia fra la nuova professione e le vecchie, sia all’in­terno dei promotori della nuova professione. Nella fase di “statu nascenti” della professione, i lavoratori che vi appartengono vengono retribuiti in mo­di impropri (lavoro saltuario, nero, semi volontario).
La diffusione della professione porta a richieste di formalizzazione contrat­tuale, continuità, riconoscimento di status. A queste richieste la società ri­sponde in genere chiedendo una garanzia: un curriculo formativo controlla­bile e formalizzato. Tale curricolo è una forma di garanzia verso la società, che in cambio offre un’accettazione della nuova professione.
Poiché i primi esploratori della nuova professione si sono ovviamente “fatti da sé”, seguendo percorsi diversi e tortuosi, ciascuno di essi cerca di modella­re sul suo percorso la formazione di base del settore. Questo apre natural­mente dei conflitti fra i “padri” della professione, che hanno il benefico ef­fetto di distillare il meglio, ma hanno anche il malefico effetto di ritardare la formalizzazione della professione. Mi sembra che gli anni Ottanta trovino l’animazione a questo stadio.
Per avviare il problema a soluzione occorre tentare uno sforzo di analisi del­la situazione attuale del mercato occupazionale, in quanto a quantità e com­posizione della offerta di lavoro.

2. La formazione di base

Questa analisi dovrebbe essere fatta dagli Enti regionali, perché sia gli utenti (imprese, istituzioni, associazioni) sia le associazioni degli animatori sono troppo polverizzati e settoriali per riuscire a fare un lavoro corretto. Doven­do infatti parlare di formazione di base non possiamo pensare a iniziative settoriali o localistiche. La formazione di base è tale se fornisce agli allievi capacità minime per offrirsi su un mercato del lavoro diversificato geografi­camente e settorialmente.
Per esempio, le iniziative più serie, per durata e qualità del curricolo, di cui siamo a conoscenza attualmente sono quelle del CMSR e della Scuola del Piccolo Teatro. A parte ogni considerazione di contenuto o di metodo, il problema di queste due iniziative è la settorialità.
Il CMSR prepara operatori centrati principalmente sul lavoro con un’utenza minorile, nel settore del gioco urbano. La Scuola del Piccolo prepara opera­tori centrati sulla tecnica teatrale. In entrambi i casi crediamo si possa parla­re più di specializzazione che di formazione di base. Per esempio, credo che sarebbe difficile per un diplomato CMSR operare nel settore delle vacanze per adulti; così come per i diplomati del Piccolo operare con le tecniche del gioco.
Queste settorializzazioni sono tuttavia di un certo respiro, cioè offrono an­che elementi di base, ma sono in netta minoranza nel panorama italiano. Si contano a centinaia i corsetti per “animatori sportivi”, “animatori di colo­nia”, “animatori audiovisivi”, “animatori per anziani”, “animatori di forma­zione” che vanno dalle 10 alle 100 ore. Si tratta di settorializzazioni per aree di intervento, per fascia d’utenza, per tecnica, con una casistica di durata e di metodi formativi che vanno dalla prima sensibilizzazione all’aggiornamen­to, all’informazione, all’indottrinamento.
Questa polverizzazione per settore e questa variegazione per modelli di for­mazione, portano due conseguenze molto negative: da una parte la scarsa ela­sticità della forza lavoro, che essendo preparata per settore non può aspirare alla rotazione fra i settori e quindi al tempo pieno; dall’altra la eguaglianza del valore dei titoli, che favorisce un trend al ribasso degli iter formativi. Ta­le polverizzazione è anche supportata dall’insipienza e dalla vocazione assistenziale degli Enti locali che finanziano con disinvoltura ogni iniziativa, senza alcun rigore di “piano”. Una formazione di base deve offrire agli allie­vi le capacità e conoscenze minime applicabili in ogni settore occupazionale; e deve essere seguita da una specializzazione e da una formazione permanen­te. Inoltre la formazione di base deve avere un’estensione ed una durata tali da far equiparare l’animatore agli altri professionisti sociali intermedi (assi­stenti sociali, educatori) dai curricoli già formalizzati.
Tale equiparazione è necessaria perché altrimenti l’animatore continua a ri­manere ad un livello più basso dì altri operatori “limitrofi”.
Nell’allegato 1è presentato un progetto di massima circa la formazione di base dell’animatore.

3. Formazione dei volontari

Un problema simile riguarda i volontari che desiderano fare animazione. Molti operano nel tempo libero, nelle attività ricreative, assistenziali, cultura­li, con impegno e dedizione. Tuttavia un volontariato che vuole essere vera­mente utile non può non porsi il problema di qualificare i suoi interventi. Il movimento volontario attuale sta superando un certo “caritativismo pastic­cione” per sempre più essere un sostegno indispensabile al lavoro sociale professionale.
Il problema formativo dunque si pone e in modo complesso. Da una parte infatti il volontariato sente l’esigenza di una formazione, dall’altra non è possibile offrire una formazione di base “canonica”, per l’eccessivo costo ed impegno che questa richiederebbe.
La formazione di base del volontariato deve dunque essere più breve di quel­la del professionale, ma ciò non vuoi dire di minore serietà. 11 problema è come economizzare il tempo della formazione di base. Credo che la soluzio­ne possa andare in due direzioni. La prima è quella della scelta dell’essenzia­le che caratterizza l’impegno volontario; la seconda è quella della formazione permanente.

3.1 Quali contenuti caratterizzano essenzialmente il volontario?

Se pensiamo al volontario come “supporto” del professionista, o come “smistatore” dell’utente verso il professionista, o come “vicario temporaneo” del professionista, in aree o momenti del giorno limitati, possiamo sostenere che l’essenziale della formazione si identifica con l’area delle capacità personali e relazionali ("saper essere"). Le conoscenze teoriche sono importanti specie per impostare un servizio o un progetto. complesso: attività che dovrebbe spettare ai professionisti e nella quale i volontari si dovrebbero inserire. Le capacità tecniche sono importanti per aggredire un problema con l’inten­zione di risolverlo: ma anche questa attività attiene alla responsabilità profes­sionale e raramente può essere delegata al volontariato.
Naturalmente questo modello non può essere sempre generalizzato. Ci sono casi in cui le conoscenze teoriche e tecniche sono molto importanti per il volontario: pensiamo agli animatori sportivi o agli animatori socioculturali. Tuttavia credo che nella generalità dei casi possiamo pensare al volontario come a colui che opera “in attesa” del professionista, o “subito dopo” che il professionista se ne è andato.
Nei casi in cui il volontario opera insieme al professionista, dovrebbe avere un ruolo di “collaboratore” solo parzialmente responsabile.
Se la professionalità di un operatore è data dall’insieme delle tre famose por­zioni ("sapere", “saper essere”, “saper fare”) non credo si debba fare del volon­tario un “professionista di serie B”, cioè un operatore che sa di tutto in ma­niera superficiale. Credo invece sia più utile dare al volontario un approfon­dimento pieno di almeno una di queste tre dimensioni, e semmai una infari­natura delle altre due.
I programmi di formazione di base per volontari dovrebbero dunque fondar­si sulla formazione della personalità e del comportamento, più che sulle co­noscenze teoriche e sulle capacità strumentali.

3.2 La seconda direttrice è quella della formazione permanente

Mentre gli operatori professionali possono contare su sicurezze offerte dallo status, dalla retribuzione, dall’investitura formale, dalle organizzazioni di ap­partenenza, i volontari possono contare solo su sicurezze personali.
Tali sicurezze devono però essere rinforzate periodicamente, se non si vuole correre il rischio dell’annegamento del volontario nell’oceano della pratica quotidiana. Dunque, mentre la formazione di base può essere concentrata nel tempo e nelle dimensioni di apprendimento, la formazione permanente del volontario può essere l’utile sostegno al mantenimento della qualità della prestazione.
Nell’allegato 2 propongo un programma tipo per la formazione di base e permanente dei volontari.

4. Formazione dei formatori e dei dirigenti degli animatori

Se occorre una professionalità provata per gli animatori, a maggior ragione ne occorre una per i formatori e per i dirigenti degli animatori.
L’Italia sembra essere un Paese in cui il “principio di Peter” ha particolare estensione. Tale principio afferma che la gerarchia di un sistema si struttura secondo il “principio della massima incompetenza”.
Un buon animatore viene promosso coordinatore di un’équipe d’animazione. In tale ruolo gli si richiedono capacità diverse da quelle dell’animato­re, ma nessuno si preoccupa di fornirgliele.
Se come coordinatore si mostra incapace, resta dove è. Se si dimostra capace, viene promosso responsabile dei servizi di animazione di una città o di una organizzazione. In questo nuovo ruolo gli si richiedono nuove capacità che nessuno gli fornisce. Se offre una prova mediocre, resta ad occupare la posi­zione raggiunta; se invece offre brillanti risultati, viene chiamato a formare nuovi animatori, magari a livelli regionali o nazionali. In questa nuova posi­zione servono nuove e diverse capacità, che ancora una volta nessuno gli fornisce. E così via.
Basta un minimo di conoscenza del sistema sociale italiano, per riconoscere che si baia sul principio di incompetenza. Non esiste infatti nessuna scuola (o curricolo formale) per formatori o per dirigenti del settore sociale. Gli stessi dirigenti, formatori o amministratori che tuonano per una maggiore qualificazione degli operatori, dimenticano la totale inesistenza della loro propria formazione di base o permanente.
Anche. le grosse organizzazioni di massa (politiche, sportive, culturali, assi­stenziali) che tentano iniziative per i “quadri”, raramente si addentrano in questioni formative, ma si limitano ad iniziative di “indottrinamento ideolo­gico”.
Il problema va dunque preso “a monte”. Occorre stabilire quali conoscenze e capacità si richiedono a chi amministra, forma o dirige gli animatori pro­fessionali o volontari: ed occorre di conseguenza programmare attività di formazione di base per questi livelli.

5. Formazione permanente ed aggiornamento

Attualmente il panorama italiano, privo come è di iniziative formative di ba­se, è costellato di iniziative che vengono catalogate nel settore “formazione permanente” o “aggiornamento”. Le due parole sono usate assai a sproposi­to, perché entrambe presuppongono una formazione di base inesistente. In realtà queste due attività vengono privilegiate per il minor impegno che ri­chiedono. Apparentemente esse sono più brevi e perciò meno costose. Ma questo ragionamento mostra la sua precarietà se si considera il costo, non in assoluto, ma in relazione ai benefici.
Centinaia di iniziative formative brevi ed economiche, che non servono a nulla ~: quasi, costano in realtà assai di più di una decina di iniziative serie e di lunga durata. Molto spesso le iniziative presentate come di formazione permanente e di aggiornamento, ambiscono ad essere una formazione di ba­se, oppure sono iniziative di specializzazione o di riqualificazione. Il proble­ma non è solo terminologico. Tutte queste attività formative, se condotte se­riamente, richiedono progetti, metodi, tecniche, tempi ed organizzazione
diversi, per raggiungere qualche risultato. Equivocare, mescolare e scambiare un’attività per un’altra, significa erigere a sistema l’incompetenza e provoca­re sprechi enormi di risorse e motivazioni.
Per esempio, fare formazione all’animazione ad insegnanti dell'obbligo", non è formazione permanente, né aggiornamento (quando mai gli insegnanti hanno avuto una formazione di base all’animazione?), ma è una attività di vera e propria riqualificazione o riconversione. Cioè si tratta di una attività di cambiamento del ruolo dell’insegnante e, in parte, della stessa organizza­zione didattica.
Sarebbe aggiornamento se si trattasse solo di ammodernare le tecniche degli insegnanti di attività espressive. 11 più delle volte, quando professioni sociali tradizionali (insegnante, assistente sociale, educatore, sociologo, psicologo, operatore culturale, ecc.) desiderano assumere l’animazione come “stile nuo­vo”, cioè modo nuovo di fare il loro lavoro, si tratta di un problema di ri­conversione o riqualificazione, che va a toccare il nucleo del ruolo professio­nale. Tale attività richiede metodi precisi e non può essere confusa con l’ag­giornamento o la formazione permanente.
Quest’ultima è un’attività finalizzata a continuare ed espandere le acquisizioni della formazione di base.
Poiché nessuna formazione di base estingue il bisogno formativo (che è illi­mitato) e poiché la società e la scienza sono in costante cambiamento, gli operatori devono poter contare su un legame permanente o ricorrente con la formazione. Tale formazione non può che essere un approfondimento de­gli apprendimenti di base, che vengono, attraverso la pratica operativa, con­frontati con la realtà. La formazione permanente non può che essere appro­fondimento attivo in un territorio specifico.
Questa definizione indica che essa deve:
1) essere ad avanzato livello;
2) precedere il coinvolgimento attivo e diretto dei partecipanti;
3) collocarsi a livello preciso di spazio e di settore.
Se queste caratteristiche non ci sono, significa che siamo nell’area dell’aggior­namento.
Queste distinzioni, ho detto prima, non solo hanno rilevanza per la scelta dei diversi metodi ed impianti formativi, ma hanno anche rilevanza in ordi­ne agli obiettivi da raggiungere. Mentre infatti l’aggiornamento esclude, per sua natura, la modifica reale dei comportamenti professionali, la riqualifica­zione e la formazione permanente si propongono proprio questo obiettivo. Misura dell’efficacia dell’azione formativa sarà dunque:
a) nel caso dell’aggiornamento, la diffusione di notizie e conoscenze che si aggiungono a quelle preesistenti;
b) nel caso della riqualificazione, la modifica del ruolo professionale e del comportamento collegato;
nel caso della formazione permanente, la espansione delle capacità fornite durante il processo iniziale.


Allegato 1

SCUOLA DI FORMAZIONE PROFESSIONALE PER OPERATORI SOCIO-CULTURALI E ANIMATORI DEL TEMPO LIBERO a cura di Guido Contessa

1. Premessa

Esistono nel sistema di formazione professionale della Regione Lombardia Scuole triennali per operatori socio-educativi e socio-assistenziali; esiste inol­tre una Scuola sperimentale per operatori socioculturali di biblioteca (bienna­le). Salvo le diverse sfumature, le figure professionali di questi tre tipi di scuole sono: l’assistente sociale, l’educatore specializzato e il bibliotecario ­animatore.
Nel settore dell’animazione socio-culturale e del tempo libero si annoverano numerose iniziative di portata e tipologie diverse: dai corsi nel settore (assi­stenti di colonie), ai corsi per tecniche (animatori musicali), ai corsi di ag­giornamento in servizi particolari (anziani, comunità-alloggio, ecc.). Il corso di base più consistente, attualmente attivo in Lombardia, è quello organizza­to dal CMSR che ha tuttavia due limiti precisi:
essere focalizzato sull’area dei campi-gioco e dei centri di tempo libero;
avere una durata sensibil­mente inferiore a quella dei corsi per operatori socio-educativi e socio-assistenziali.

2. Il mercato del lavoro

Attualmente il mercato del lavoro nel settore socio-culturale e del tempo li­bero è in continua espansione. La diminuzione dell’orario di lavoro, la ridu­zione della durata della vita lavorativa, la espansione dei consumi culturali e di tempo libero, l’aumentata scolarizzazione, la diffusione delle attività di educazione permanente: sono tutti fattori che determinano un aumento pro­gressivo dell’offerta di lavoro nel settore socio-culturale e del tempo libero. Un calcolo approssimativo attesta intorno alle 50.000 unità i lavoratori che svolgono mansioni animative nel solo settore turismo-vacanze per minori e per adulti. La gran parte di questi è ancora stagionale, ma aumenta il nume­ro degli occupati nel settore, che stabilizza l’occupazione presso committenti
diversi. Per esempio, stanno aumentando gli operatori assunti d’estate per campeggi o campi Robinson, d’inverno per le attività integrative o i soggior­ni per anziani.
Almeno altrettanti sono gli operatori dei servizi urbani decentrati: campi-gioco, centri d’incontro, dopolavoro, cineforum, centri culturali, associazioni giovanili, musei e biblioteche, servizi per handicappati.
A questi si aggiungono operatori di attività integrative nella scuola, operatori di istituzioni e comunità per emarginati (handicappati, tossicodipendenti, di­messi OOPP), operatori dell’educazione permanente degli adulti (alfabetizza­tori, 150 ore, educazione sanitaria, alimentare, ambientale) ed infine operato­ri di associazioni volontarie.
La stima complessiva sul territorio nazionale di almeno 50.000 posti di lavo­ro a tempo pieno e di circa 100.000 a part-time, non è infondata. Agli ope­ratori di base vanno aggiunti i dirigenti-coordinatori dei servizi (circa 15.000 su un rapporto 1/100) ed i formatori (circa 1500 su un rapporto 1/1000). Va ricordato che nessuna figura professionale ha visto nascere le sue istitu­zioni formative prima che il mercato del lavoro fosse stabilizzato; al contra­rio l’esistenza di iniziative di formazione ha contribuito sempre a stabilizza­re il mercato del lavoro.

3. Impostazione generale

La Scuola per OSC/ATL qui proposta si baia su alcune linee generali:
1) una durata biennale per gli operatori di base, più un anno di specializza­zione per “dirigenti” o per “formatori”;
2) ogni anno ha una durata intorno alle 1000 ore, al pari delle scuole per OSE e OSA;
3) le ore previste devono suddividersi in ora di scuola e di tirocinio sul campo;
4) le ore di scuola devono prevedere un equilibrio ottimale fra gli apprendi­menti cognitivi (sapere), le acquisizioni strumentali (saper fare) e le capaci­tà personali (saper essere);
5) il primo anno è di base, il secondo anno si finalizza ad una specializza­zione in due o tre settori;
6) la Scuola a fianco dei corsi di base deve prevedere corsi ridotti per opera­tori volontari, part-timers, stagionali, e per l’aggiornamento di operatori già in servizio;
7) le specializzazioni del secondo anno devono essere modulari in modo da consentire ai diplomati un facile inserimento in specializzazioni che fosse­ro richieste dall’evoluzione delle loro mansioni.

4. Organizzazione

La Scuola deve avere una dimensione regionale, perché solo questa consente una dimensione ottimale ed una continuità sufficiente a garantire la qualità. Il finanziamento può essere regionale, statale o provenire da un Consorzio di Comuni o dal Fondo Sociale Europeo.
11 costo generale approssimativo dell’iniziativa è di circa 1.000.000 per allievo per ogni anno scolastico, comprensivo di ogni spesa per la organizzazione didattica.
La realizzazione della Scuola può essere garantita da subito da tre organizza­zioni da tempo operanti nel settore della formazione degli animatori socio-culturali e del tempo libero:

— Isameps (per l’organizzazione e per i contenuti didattici di ordine ammi­nistrativo, giuridico, sociologico e sociopolitico e socioeconomi­co)
— Aiatel (per il tirocinio, l’addestramento tecnico-strumentale)
— Arips (per la metodologia formativa, i contenuti psicologici e psicope­dagogici e psicosociali, e per l’addestramento relazionale). Naturalmente, qualora se ne presentasse l’opportunità, i tre Enti indicati sono disponibili alla collaborazione con Enti e persone diverse.
La ammissione alla Scuola per i corsi di base dovrebbe essere subordinata ad un titolo di Scuola superiore. 11 diploma rilasciato alla fine del biennio o del triennio dovrebbe essere riconosciuto almeno in ambito regionale, quale tito­lo valido per i concorsi o le assunzioni anche stagionali.

5. Metodologia

La metodologia della Scuola è quella del lavoro attivo e del piccolo gruppo di apprendimento. Sono previsti anche momenti di trasmissione di contenuti teorici e momenti autocentrati, Lo staff prevede:
— animatori di gruppo (coordinamento docenti, stimolazione e verifica dell’apprendimento, training di gruppo)
— tutors (supervisori individuali e dei tirocini)
— docenti (portatori di contributi teorici)
addestratori (animatori degli ateliers)


LA FORMAZIONE DEI FORMATORI DEI FORMATORI

Lo staff iniziale non può essere formato ad una scuola apposita. Esso deve essere formato con questi accorgimenti:
1) selezione mediante analisi del curriculum professionale che deve compren­dere esperienze specifiche di animazione e di formazione;
2) il gruppo selezionato deve dedicare almeno dieci giornate di seminario in­terno il primo anno; e cinque giorni ogni anno, finalizzati ad omogeneiz­zare l’impostazione formativa di ognuno;
3) lo staff deve essere supervisionato periodicamente dal direttore della scuo­la o da un supervisore esterno.

Allegato 2

PROGRAMMA PER LA FORMAZIONE DI BASE PER VOLONTARI DELL’ANIMAZIONE a cura di Guido Contessa

1. Volontari-animatori e Animatori-volontari

Il movimento volontario ha aspetti assai diversi ed opera in settori i più va­ri. Esiste un volontariato dell’assistenza, della salute, dell’ecologia, ecc. Cia­scuno di questi volontariati opera anche con lo stile dell’animazione, ma non sempre e necessariamente. In qualche caso si tratta “solo” di assistere chi ha bisogno, o di difendere “solamente” un patrimonio naturalistico. In molti ca­si però i volontari dei diversi settori si pongono anche problemi di anima­zione dei gruppi e delle comunità. Per esempio, gruppi ecologici, oltre ad occuparsi del territorio, si propongono di sensibilizzare la pubblica opinione, creare altri gruppi, sollecitare una “voglia di natura” nelle scuole, e cosi via. In questi volontari l’animazione può costituire una porzione più o meno importante del complesso delle competenze che essi hanno. Possiamo chia­marli “volontari.animatori”.
Ci sono altri volontari che operano esclusivamente o primariamente nell’ani­mazione. Essi si propongono di far aumentare la coscienza degli individui, dei gruppi e delle comunità, mediante attività ricreative, culturali, educative, sportive o socializzanti. Più che lavorare in un settore specifico e per un progetto specifico, costoro operano con le persone “solo” per la loro cresci­ta. Spesso organizzano iniziative concrete (magari anche ecologiche) ma non si possono considerare volontari-animatori (per esempio dell’ecologia). Que­sti li chiamerò “animatori.volontari”. La questione è simile a quella che si pone nelle professioni. Ci sono insegnanti, assistenti sociali, preti, psicologi, educatori che operano nello stile dell’animazione e che vengono definiti col loro ruolo professionale e coll’aggiunta (legata con trattino) del termine ani­matore. Si parla così di insegnante-animatore, prete-animatore, psicologo-­animatore, e così via. Poi ci sono operatori che si definiscono animatori tout court: di centri d’incontro, di campi estivi, di colonia, teatrali, socioculturali, e così via. Insomma distinguiamo l’animazione come stile dall’animazione co­me vera e propria professione. Medesima distinzione si può fare per i volon­tari che hanno uno stile animativo, o fanno anche animazione, e per i vo­lontari dell’animazione.
La distinzione non è formale perché i due livelli richiedono programmi for­mativi diversi, sia nel percorso iniziale che in quello ricorrente, sia nell’ag­giornamento sia nella riqualificazione.
Il programma qui presentato riguarda principalmente gli animatori-volontari o volontari dell’animazione.

2. I volontari dell’animazione e la loro formazione

La formazione di un operatore sociale comprende almeno tre aree: cono­scenza teorica (sapere), abilità tecnica (saper fare), capacità personali relazionali (saper essere).
La formazione di base degli operatori professionali prevede in genere una equi ripartizione fra queste tre aree, ma questo richiede un certo investimen­to di tempi e risorse. Tale investimento non può essere chiesto anche per gli operatori volontari, per ovvi motivi. Si danno dunque due possibili scelte.
La prima è quella di ridurre il programma base degli animatori professionali, come in riduzione fotografica. In tal caso si prendono le 1000 ore annue previste (v. allegato 1) per gli animatori professionali; si riducono a 100/200 ore; infine si riducono di conseguenza, proporzionalmente, i diversi appren­dimenti. Tale scelta ha un limite evidente nella superficialità, anche se ha il vantaggio della orizzontalità della formazione di base del volontario
La seconda scelta è quella di determinare quale è il nucleo centrale ed essen­ziale della formazione dell’animatore volontario; assegnare a questo nucleo circa il 70% del monte orario disponibile; e lasciare la quota rimanente ad una semplice informazione su quanto è considerato accessorio.
Tale scelta ha il vantaggio della profondità, ma il limite di sorvolare su aspetti in genere considerati più immediatamente “concreti”. Sembra infatti ovvio che, dovendo fare una opzione circa il nucleo della formazione dell’animatore volontario, questa non può ricadere né sulla tecnica, né sulla teoria. Le conoscenze teoriche e le abilità tecnico-strumentali sembrano esse­re più propriamente caratteristiche dell’operatore professionale, al quale il volontario è destinato ad affiancarsi. La scelta sembra dover cadere sulle ca­pacità personali e relazionali, sulla sensibilità, sul “saper essere”. Un’area que­sta, che caratterizza l’animatore volontario come operatore che usa per il proprio servizio essenzialmente o principalmente se stesso. Un “se stesso” che deve dunque essere formato: all’introspezione, ai rapporti cogli altri e colle diversità, alla tenacia ed alla resistenza alle frustrazioni, alla apertura ed alla fiducia, all’ascolto ed alla lettura dei bisogni, alla disponibilità ed alla sereni­tà. Caratteristiche queste che possono essere apprese, se non nella sostanza, almeno nelle loro modalità espressive.
In altre parole, sarà difficile “formare alla fiducia”, ma è possibile formare “ad esprimere un atteggiamento ed un comportamento aperto e fiducioso”. Se non è possibile formare alla relazione di scambio, sarà possibile formare ad “esprimere comportamenti funzionali al lavoro di gruppo”.
Essendo assai complesso questo lavoro, molta attenzione andrà posta alla formazione permanente. L’aspetto del “saper essere” infatti è quello che più necessità un insegnamento-apprendimento continuo, essendo a dimensione il­limitata.
Un aspetto che va considerato sia nella formazione di base che in quella per­manente, è quello della settorialità. Mentre infatti i professionisti devono po­ter agire su un mercato del lavoro variegato, per aspirare ad un contratto part-time, i volontari scelgono il settore di intervento in base a motivazioni o interessi precisi: per essi dunque la settorialità può essere un elemento cen­trale della motivazione.