Laggiornamento di insegnanti di un doposcuola: i condizionamenti strutturali *
L'intervento formativo che segue, viene presentato in questa, rubrica come un esempio tipico della incidenza di fattori strutturali, cioè esterni o preesistenti all'attività, sui risultati di un'azione di aggiornamento.
1. L'approccio ed il progetto
Un gruppo di insegnanti del doposcuola di una elementare dell'hinterland
milanese chiede di aver un colloquio col sottoscritto, allo scopo di varare
un'attività di aggiornamento. La scelta del consulente è avvenuta
in seguito alla lettura di un articolo pubblicato da me sui problemi dell'educazione
e dell'animazione.
Nel corso del colloquio, le maestre affermano di voler realizzare prima
dell'inizio dell'anno scolastico un'attività di aggiornamento. L'anno
precedente era stata fatta un'attività simile, alla quale circa un
quarto delle maestre attualmente in servizio avevano partecipato (le altre
se ne erano andate o non erano state riconfermate dopo il primo anno). Poiché
l'attività precedente era essenzialmente tecnica, per questa volta
le maestre desiderano qualcosa che contenga una maggiore attenzione ai processi
di gruppo ed alle teorie pedagogiche.
Il colloquio termina con la richiesta da parte mia di avere una riunione
di tutte le 24 maestre.
Nel corso del secondo incontro allargato vengo a sapere che:
il Comune è retto da un'amministrazione socialcomunista moderata,
e l'Assessore alla Istruzione è un individuo molto autoritario;
le maestre sono terrorizzate dall'idea di non essere assunte o di
essere licenziate;
fra le maestre del mattino e quelle del doposcuola non c'è
alcuna collaborazione, salvo rari casi personali.
Gli interventi sono ridotti a tre o quattro maestre; la sensibilità
politica è assente in quasi tutte; c'è un'esigua minoranza
del gruppo Comunione e Liberazione vagamente sensibile ai problemi psicopedagogici;
le maestre sono tutte giovanissime, e 2/3 sono al primo impiego. Balza all'occhio
che l'intervento non si basa sulle motivazioni della maggioranza, che sembra
molto disinteressata. L'intervento si basa sulla spinta dell'Assessore,
che vuole l'iniziativa in parte perché la crede utile, in parte perché
pensa in tal modo di mostrare alla cittadinanza la serietà dell'Amministrazione.
Ultima cosa, che vengo a sapere, è che sta arrivando un coordinatore,
neoassunto, richiesto dalle maestre dell'anno precedente. Le richieste in
generale non aggiungono niente di nuovo a quelle fattemi dal gruppo ambasciatore:
un corso che contenga non solo aspetti tecnici ma anche aspetti psicologia
e pedagogici. In termini di atteggiamento è evidente, da una parte,
una scarsa motivazione, dall'altra una certa controdipendenza nei nostri
confronti, considerati sia come supporti dell'Assessore "cattivo"
e sia come portatori di un obbligo (il corso) non previsto. Prima di formulare
la proposta di programma, abbiamo chiesto un colloquio con il cliente pagatore,
cioè l'Assessore. Artigiano, aria molto decisa, effìcientista,
realista, ma insieme disponibile. La sua principale preoccupazione è
che i genitori che lasciano i figli al doposcuola siano contenti; in secondo
luogo che le maestre si "sveglino" e si '"diano da fare".
Interrogato sulle reali possibilità di licenziamento smentisce, ma
conferma che ogni anno l'Amministrazione decide quali maestre riconfermare.
II criterio per la riconferma è la buona volontà, l'attivismo
ed il gradimento dei genitori. L'Assessore accusa poi la "scuola del
mattino" di scarsa volontà di collaborazione ed arretratezza;
alcuni suoi tentativi di coinvolgimento sono falliti, ma spera che siano
le maestre del doposcuola a gestire il rapporto in modo da innovare tutta
la scuola.
Quanto a noi, l'Assessore ci lascia la massima libertà, "purché
me le svegliate".Il progetto come sempre deve fare i conti con due
variabili ineluttabili: il tempo disponibile ed i soldi.
Cercando di affiancare diversi obiettivi tutti necessari e richiesti, abbiamo
progettato, e poi sottoposto all'approvazione di tutti i partecipanti, un
programma a più fasi intrecciate, per un totale di 19 mattinate e
due giornate intere. Lo staff permanente del progetto, presente in più
fasi successive, era composto da due psicosociologi (tra cui il sottoscritto),
un'animatrice ed alcuni esperti responsabili di singoli interventi.
La prima fase aveva l'obiettivo della "costituzione
del gruppo", cioè intendeva aumentare la sensibilità
individuale al lavoro collettivo e la capacità di lavoro del gruppo.
Per questa fase erano previsti due giorni interi all'inizio del corso e
poi cinque mattinate di ripresa, una alla settimana circa. La metodologia
usata era quella del t-group, con unità autocentrate, esercitazioni
facilitanti dei processi interattivi, e concettualizzazioni. Le maestre
erano divise in due gruppi di 12, ciascuno dei quali condotto da un trainer
e un osservatore.
In questa fase si è verificato il fenomeno del maggior assenteismo,
con partecipanti che venivano in ritardo, oppure saltavano intere unità
di lavoro, impedendo a sé ed alle altre un apprendimento continuo
ed inoltre rafforzando le difese nei confronti di un attivo coinvolgimento.
La seconda fase aveva l'obiettivo di aumentare le conoscenze psicopedagogiche e sociologiche e prevedeva sei mattinate. La metodologia prevista era quella delle comunicazioni teoriche seguite da discussioni in sottogruppi. Nei sottogruppi, il ruolo dei conduttori era legato ai contenuti della discussione ma anche ai processi. Qui è emerso un pauroso deficit nella formazione di base delle maestre, oltre che la difficoltà a discutere in gruppo dovuta al fallimento della prima fase.
La terza fase aveva l'obiettivo di arricchire le conoscenze tecniche e metodologiche relative al gioco ed all'animazione. Essa prevedeva cinque mattine con una metodologia basata su esercitazioni attive, simulazioni e discussioni di gruppo. In questa fase si è registrata una maggiore partecipazione attiva, anche se resa difficile nei momenti di discussione e concettualizzazione.
Va sottolineato che queste "fasi" non erano consecutive ma intrecciate, in modo da lavorare quattro mattine alla settimana con una alternanza delle metodologie. Il progetto prevedeva anche un incontro serale con i genitori e gli insegnanti del mattino, allo scopo di spiegare gli obiettivi del corso e di sensibilizzare la comunità al cambiamento di ruolo delle maestre del pomeriggio. Infine, il corso si chiudeva, dopo un mese di intervallo in cui le maestre dovevano aprire le attività pomeridiane, con un "follow up": cioè tre mattine di verifica dei risultati del corso e dei problemi affrontati "sul campo". Ai partecipanti durante il corso vennero date indicazioni bibliografiche, schemi di esercizi e un questionario di autovalutazione del lavoro di gruppo.
2. I risultati ed i condizionamenti
I risultati di questo intervento sono stati fra i meno brillanti
delle mie numerose esperienze formative. Probabilmente le acquisizioni hanno
riguardato solo qualche tecnica ed alcuni aspetti teorici (molto pochi).
Dal punto di vista della sensibilizzazione credo che siamo riusciti al massimo
a mettere qualche dubbio in alcune maestre. Dopo e durante l'esperienza,
ci siamo interrogati a lungo del perché del fallimento ed abbiamo
scartato errori nel modello (calibrato e creativo) o falle nello staff (in
quella occasione molto concorde e attivo). Credo dunque che le ragioni del
fallimento vadano ricercate in cause esterne o preesistenti.
Le cause preesistenti sono essenzialmente due.
La prima è la formazione di base delle neodiplomate maestre. È
molto arduo fare aggiornamento, se non c'è niente da aggiornare.
Le maestre in questione erano digiune dei più basilari concetti della
pedagogia, estranee al dibattito politico sulla scuola, prive di strumenti
logici ed analitici. L'innovazione di un ruolo professionale è possibile
laddove esista un'identità con un ruolo precedente, cioè laddove
esistano esperienze, riflessioni, una "cultura" del mestiere.
Molte di queste maestre non avevano mai visto una classe, altre (le anziane
del posto) avevano passato un anno facendo fare solo i compiti assegnati
la mattina.
La seconda riguarda le motivazioni di queste maestre. Purtroppo è
invalso un demagogico e pernicioso metodo di assunzione degli operatori
sociali: quello del concorso a titoli. Si dice che questo metodo garantisce
dagli abusi passati, e forse è vero. Ma è solo la mancanza
di fantasia che impedisce di mettere a punto altri metodi selettivi che
garantiscano dagli abusi passati ma tutelino l'utente.
Per tutelare i lavoratori della scuola, si usa un metodo che non rispetta
i figli di tutti i lavoratori. Già l'ingresso alla carriera magistrale
si basa su motivazioni non proprio educative, come la sicurezza, il prestigio,
il part time. L'accesso a professioni ancora precarie, come quella di maestra
comunale del doposcuola, è troppo spesso un rifugio per intellettuali
disoccupati, una occupazione transitoria in attesa della nomina di ruolo
statale, un'area di parcheggio.
Con queste motivazioni di partenza è assai probabile che un corso
sia visto come una seccatura imprevista. Se poi il corso propone il cambiamento
del ruolo, con la prevedibile gestione dei conflitti conseguenti e le insicurezze
correlate, è facile che le motivazioni scarseggino. Per fare l'operatore
sociale tradizionale occorre una buona motivazione specifica, per fare l'innovatore
occorre una forte motivazione.
A questi deficit preesistenti si aggiungevano altri condizionamenti esterni.
II coordinatore, che doveva essere momento di coagulo, di rassicurazione
e di animazione e sostegno del gruppo, soffriva anch'egli degli stessi handicaps
delle maestre: impreparazione, insicurezza e demotivazione. Laureando in
filosofia, mai lavorato in una scuola, arrivato a quel posto col preminente
intento di pagarsi gli ultimi mesi d'università.
La scuola del mattino, abbastanza tradizionale, impermeabile alle innovazioni,
anzi in difesa contestativa verso le iniziative dell'Assessore, considerato
di parte politica avversa. La maggioranza degli insegnanti del mattino continua
a dare i compiti al pomeriggio, impedendo così l'integrazione e rifiutandosi
di collaborare con le colleghe del pomeriggio.
La comunità dei genitori, molto spenta culturalmente, interessata
solo al buon andamento tradizionale della scuola, quindi, più sensibile
alle maestre del mattino che al doposcuola. I genitori considerano il doposcuola
come un'area di custodia nelle ore di lavoro e un momento di "ripetizioni"
per i figli.
Infine il ricatto della non rinnovabilità del contratto di lavoro
a termine, un'arma terroristica paralizzante. Anche se magari proprio questa
paralisi poteva essere la causa del mancato rinnovo. II timore era tale
che le maestre preferivano non fare niente piuttosto che rischiare. Questo
timore era poi acuito dell'atteggiamento dell'Assessore, molto punitivo,
autoritario, sprezzante. Pur dichiarando di voler una maggiore autonomia
delle maestre, egli dimenticava che non si può "comandare"
l'autonomia. Così facendo, si aumenta la dipendenza e la passività:
e infatti, dopo il primo anno, le maestre avevano chiesto un coordinatore.
In sostanza si trattava di un sistema di contraddizione con se stesso, ma
in cui uno dei due poli della contraddizione (il polo innovativo) era troppo
debole rispetto all'altro (il polo della conservazione).
Le uniche due forze che potevano essere messe sul piatto dell'innovazione
erano alcune dichiarazioni dell'Assessore, e la oggettiva condizione dequalificata
del lavoro delle maestre del doposcuola. Sul piatto della conservazione
c'era ben di più: l'impreparazione e la scarsa motivazione delle
maestre, e del coordinatore, l'atteggiamento concreto dell'Assessore, il
ricatto contrattuale, il disinteresse dei genitori e l'insensibilità
della scuola statale.
In casi come questo, i risultati della formazione e quindi il cambiamento
sono necessariamente miseri.
Nota bibliografica
AA VV., Attività di animazione e socializzazione
nella scuola dell'obbligo. La Scuola, Brescia 1977.
L. ANCONA - A. ACHILLE, Comportamenti e tecniche di gruppo, Etaslibri,
Milano 1975.
F. PASSATORE, Animazione dopo, Guaraldi, Firenze 1977.
* Estratto da QUADERNI DI ANIMAZIONE SOCIALE E DI EDUCAZIONE PERMANENTE, n.8/9, marzo 1978, pag. 39-42