L’animazione e la progettazione nella scuola, nel tempo libero e nel quartiere
di
Guido Contessa*

SOMMARIO

1. I compiti della animazione in questo momento storico
2. Animazione e scuola
3. Animazione e tempo libero
4. Animazione e quartiere

1. I compiti della animazione in questo momento storico

Una delle caratteristiche della nostra società è la compartimentalizzazione. La divisione del lavoro e delle competenze è considerata più efficiente. I singoli operatori sono messi nelle condizioni di lavorare settorialmente, mentre il coordinamento (la sintesi) è avocato dall’Ente politico, cioè da quello che dovrebbe essere il " potere ". Questo dovrebbe essere sintetico, in quanto rappresentativo dello Stato o della comunità locale, entità astratte ispirate al principio della totalità onnicomprensiva. La degenerazione dei sistemi sociali attuali è tale tuttavia che anche Stati e comunità locali non sono più rappresentativi di unità, ma aggregati di corporazioni in conflitto. Gli organismi politici si sono anche essi specializzati, parcellizzati, suddivisi. A lato di questa progressiva estensione delle divisioni delle competenze e dei poteri, si è verificata una progressiva suddivisione degli individui al loro interno, secondo una spirale schizofrenica. L’illusione del " potere " di conservare il dominio sulla totalità suddividendola, si è ritorta contro di esso parcellizzandolo: il costo di questo processo è l’anomia sociale e la schizofrenia individuale. La suddivisione non si è affiancata all’integrità, ma l’ha sostituita. Per rifuggire l’autoritarismo e la rigidità di un sistema integrato, la società è giunta a disintegrarsi. La pluralità è un elemento che favorisce la libertà solo se è accompagnata dalla sintalità; in assenza di questa, la pluralità diventa alienazione. Come dice P. Slater, privilegiare il dominio del cervello sugli arti significa far vivere l’uomo secondo una gerarchia autoritaria ed entropica; ma consentire che arti e cervello funzionino separatamente, significa condannare l’uomo alla psicosi. Ogni arrivo alla ribalta sociale di una nuova figura professionale è un tentativo del sistema di continuare la spirale perversa della parcellizzazione. Per gli animatori la storia non è stata diversa. Ad essi, a seconda degli orientamenti, si affidano le attività ricreative del tempo libero, oppure lo sviluppo della cultura e della partecipazione, oppure ancora l’educazione creativa. A fianco di una organizzazione del lavoro distruttiva e mortifera, gli animatori dovrebbero essere specializzati nella " ricreazione " (quali echi di onnipotenza in questa parola!). A fianco di un potere politico incolto ed alienante, mafioso ed elitario, gli animatori dovrebbero sviluppare cultura e partecipazione. In una scuola repressiva, adattiva ed ammuffita, gli animatori dovrebbero inserire creatività, spontaneità ed espressività. Come tutti gli altri operatori sociali, anche gli animatori, non sembrano riuscire a staccarsi dal loro destino di agenti compensatori degli squilibri del sistema, di terapeuti ad "effetto placebo" delle malattie sociali. D’altra parte l’iter di affermazione di ogni disciplina o professione nuova è tale per cui non si intravedono vie d’uscita. Ogni nuova azione sociale deve professionalizzarsi, cioè specializzarsi, per essere considerata accettabile. Lentamente questa specializzazione perde i suoi contatti col sistema parente che l’ha generata, finché l’azione si identifica con la specializzazione, il metodo, la tecnica. A questo punto l’azione non ha alcun punto di contatto con la totalità, funziona in se stessa e per stessa, e arriva a definire questo isolamento come autonomia e libertà. Si arriva a sostenere che una disciplina o un’azione sociale è " seria " quando è specifica, sconnessa dalle altre, capace di vita autonoma. Come se la mano " seria" fosse quella capace di lavorare staccata dal corpo. Ogni connessione, interdipendenza, rapporto sono considerati servitù; invece la sconnessione, l’indipendenza e l’assenza di rapporti sono considerati libertà. L’animazione è quindi spesso intesa come separata dalla scuola, dal lavoro, dalla politica. Quello che invece l’animazione deve fare è di ricomporre il quadro unitario della comunità, dell’uomo e delle pratiche sociali. Essa deve considerarsi connessa, interdipendente, con la scuola, col lavoro e le altre pratiche sociali; e deve sforzarsi di considerare interconnesse anche queste entità fra loro. Ciò che deve fare l’animazione è disoccultare la totalità, la sintalità, l’unità, rimosse dalla società e dai soggetti in nome della deificazione dell’individualismo, della autonomia e della separazione. Non certo perché questi ultimi debbano essere sostituiti con le prime, ma perché entrambi i poli di questa apparente contraddizione devono convivere dialetticamente. Non già perché totalità, sintalità e unità siano più importanti dei loro contrari, ma perché esse sono rimosse in questo momento storico.

2. Animazione e scuola

Nella scuola l’animazione è entrata o sotto forma di attività integrative o sotto forma di " festa una tantum ". L’ipotesi che l’animazione potesse diventare un elemento di innovazione della scuola, non è quasi mai uscita dal regno delle affermazioni. Si sono avuti casi di attività pomeridiane affidate ad animatori, di interventi di animatori in qualche ora della mattinata, di assunzioni di animatori sub specie di esperti in LAC (libere attività complementari)) nelle scuole sperimentali. Ci sono numerosi libri (v. indicazioni bibliografiche, nn. 2 et 3) che parlano di animazione nella scuola. Tuttavia la realtà non è, se non raramente e per poco tempo, riuscita a superare la parcellizzazione. Al mattino attività " serie ", curriculari, utili, repressive; al pomeriggio creatività, socialità, espressività, permissività. Al mattino l’ordine, al pomeriggio il disordine. A volte questa divisione fra mattino e pomeriggio è rifiutata; allora l’alternanza è fra ore della stessa mattinata. L’animazione tende ad aprire la scuola all’esterno, portando dentro cittadini, genitori, amministratori, o portando fuori i bambini. La scuola mantiene la sua impermeabilità: nessuno entra e nessuno esce. La sua sconnessione con la realtà è considerata un merito ed una garanzia di purezza, oltre che una dichiarazione di orgoglio autarchico.

2.1 Progettare l’animazione nella scuola significa anzitutto progettare l’animazione della scuola. Gli animatori devono animare, cioè dare vita e coscienza, a quel simulacro vuoto che spesso è la scuola. Paradossalmente, i bambini, per l’animatore che opera nella scuola, sono un elemento trascurabile. Quanto più egli si occupa di loro e tanto più accelera la loro divisione schizofrenica. Fuori dal paradosso, i bambini devono essere l’oggetto-soggetto primario dall’animazione, ma proprio per questo gli animatori devono occuparsi più degli insegnanti, dei genitori e delle autorità scolastiche, che dei bambini stessi. Progettare l’animazione nella scuola significa anzitutto cercare di superare la dicotomia scuola-animazione: il bambino è unico, unito (almeno per ora); gli obiettivi della scuola e dell’animazione sono assai vicini, quasi sovrapponibili (almeno nelle dichiarazioni); unico è l’ambiente, il quartiere. La connessione fra scuola e animazione è una necessità. A questa necessità si oppongono numerosi fattori: l’ottusità o il conservatorismo, la pigrizia o l’impreparazione di molti insegnanti, autorità scolastiche, genitori. Con queste resistenze dell’istituzione collude spesso l’ingenuità degli animatori, il loro radicalismo, il loro pressapochismo. Tutto ciò può essere superato con strategie e tattiche molto raffinate. Anzitutto occorrono alleanze. Organi collegiali, servizi sociosanitari, Amministrazioni locali, organizzazioni sindacali, associazioni culturali, sono tutti potenziali alleati. Poi occorrono progetti, non invenzioni casuali. Obiettivi di media e lunga portata, metodi e tecniche per realizzarli, sistemi di verifica. Infine occorrono iniziative e comportamenti esemplari. La scuola deve poter vedere in concreto che le proposte degli animatori sono attuabili, utili e soddisfacenti. Nessun cambiamento della scuola sarà possibile finché si usa il terrorismo dialettico, il pregiudizio, l’utopia astratta. L’animatore può ottenere cambiamenti della scuola, dimostrando che ciò che fa lui possono farlo anche gli insegnanti: attraverso l’esempio.

2.2 Il secondo obiettivo dell’animazione nella scuola è riconnettere questa con la comunità. Far entrare nella scuola genitori, operatori diversi; oppure portare i bambini nelle quartiere e nelle sue istituzioni (comitato, biblioteca, museo, campo sportivo). Connettere la scuola di ordine inferiore con quella di ordine superiore; la scuola col lavoro; la scuola con la vacanza. Il bambino oggi passa sovente dalle mani di insegnanti, a quelle di animatori delle integrative, a quelle di animatori del tempo libero, a quelle di animatori dei soggiorni di vacanza. Una sorta di catena di montaggio dell’educazione. Operatori parcellizzati, contraddittori, sconnessi fra loro, dai quali il bambino non fa che apprendere inviti a comportamenti schizofrenici; e per i quali i bilanci pubblici sono in perenne disavanzo. Progettare iniziative che riconnettano la scuola al suo esterno è compito anche degli animatori, i quali saranno tanto più utili alla società quanto più sapranno inventare in questo ambito.

3. Animazione e tempo libero

Il tempo libero (loisir, leisure) è storicamente il settore che per primo ha fatto uso di animatori (moniteurs, playleaders).
Per i bambini tempo libero è quello passato fuori dalla scuola e lontano dalla famiglia. Campi gioco, parchi Robinson, soggiorni di vacanza, campeggi, settimane colorate, oratori, campi sportivi, palestre: questi sono gli ambiti dell’animazione dei bambini.
Ma il tempo libero riguarda tutte le altre categorie di cittadini: adulti, donne, anziani, giovani. Storicamente in Italia abbiamo assistito ad un certo impegno verso i bambini, contro uno scarsissimo impiego di risorse verso gli adulti. E' solo negli ultimissimi anni, con la riscoperta del tema della qualità della vita, che molte forze politiche e culturali si sono rivolte al tempo libero degli adulti, considerandolo spazio agibile per attività socioculturali.
Da sempre operano in questo settore enormi risorse, ma tutte modellate sullo schema culturale del consumo e dell’evasione. Basta pensare alla forza delle strutture dopolavoristiche; alle organizzazioni per il tempo libero dei partiti e delle grosse associazioni; al numero delle aziende autonome del turismo, degli ee.pp.tt., delle pro loco; alle grosse e potenti associazioni sportive; alle catene bibliotecarie. Progettare l’animazione nel tempo libero significa riconnettere questi mondi compartimentalizzati, vitalizzandoli e consegnandoli all’uso del cittadino. Ancora oggi (v. indicazioni bibliografiche, nn. 4 e 5) queste strutture ed organizzazioni vivono alla giornata, fuori da un progetto di integrazione, secondo logiche di separazione e di difese personalistiche o corporative. Il tempo libero è una industria e come tale è gestita anche se i " padroni " sono gli Enti locali, i partiti, le associazioni religiose o sindacali.

3.1 Come una industria, il tempo libero è regolato dal consumo, cioè da una spirale di produzione, riproduzione e distruzione. Ciò che ne resta è insieme un plusvalore di danaro e di potere, per chi, naturalmente, detiene tutto il processo.
Ma oltre a produrre plusvalore, il tempo libero come industria produce qualcosa di molto pericoloso per l’uomo e la società: comportamenti, valori, pensieri perfettamente congrui al tempo di lavoro. L’industria del tempo libero è dunque un’industria del consenso e dell’adattamento. Progettare l’animazione nel tempo libero significa progettare il cambiamento sociale; significa progettare la liberazione del tempo.
Il sistema del tempo libero offre dei vantaggi per questo lavoro socio-culturale di liberazione. Intanto esso non è centralizzato e non dispone, come invece l’impresa, di strumenti repressivi diretti. Ha difficoltà sia nell’agire in modo coordinato sia nel reprimere i comportamenti divergenti. Questa situazione apre delle crepe nel sistema ed offre degli spazi all’operatore socioculturale. D’altro canto proprio queste caratteristiche di vulnerabilità, sono una forza del sistema del tempo libero. Non essendo centralizzato, ma magmatico e disperso, non offre visibilmente una controparte: spesso per l’operatore essa è il proprio partito, l’organizzazione sindacale, la propria associazione sportiva. Questa è la condizione che consente all’organizzazione cattolica ed all’organizzazione marxista, di effettuare gli stessi viaggi nelle stesse località ed allo stesso prezzo praticato dalla Confindustria. Con una sola differenza: i viaggi organizzati dalla Confindustria possono essere contestati e criticati. Inoltre, se il sistema industriale del tempo libero non dispone di strumenti repressivi diretti, esso ne ha di ugualmente potenti: i modelli di comportamento e le mode, distribuiti attraverso i mass media. Attraverso essi il dominio del sistema produttivo-distruttivo del tempo libero diventa difficilmente attaccabile, perché si basa sulla falsa coscienza che essi siano " naturali ". L’operatore socioculturale ha dunque di fronte un sistema complesso, basato sull’alienazione di massa e su comportamenti talmente introiettati, da non sembrare generati da nessuno.
Anche qui ciò è reso ancor più possibile dalla sconnessione esistente fra tempo libero e tempo di lavoro, fra ricreazione e produzione, coscienza ed evasione. t lo stesso lavoratore che lotta in fabbrica per un’altra organizzazione del lavoro, a mettersi in coda per raggiungere Rimini, dove troverà quella alienazione che gli sembra di avere lasciato a Torino. Occorre dunque collegare, riunire, riconnettere.

3.2 Occorre riistituire il legame naturale spezzato fra salute, sport e vacanza, cultura e luogo di produzione, festa e politica. Occorre evitare che in una stessa zona la compartimentalizzazione spinga operatori sportivi, operatori socioculturali, operatori turistici a lavorare non solo separatamente, ma anche in conflitto. Anche qui si tratta di strategia e tattica, di alleanze, di progetti precisi, di esempi concreti.
A Zurigo, l’organizzazione per il tempo libero giovanile cittadina, ogni estate consegna un blocchetto ad ogni giovane. Il blocchetto contiene una serie di " pass ": per usare i trasporti gratuitamente in certe ore, partecipare a manifestazioni speciali, entrare in cinema e teatri con lo sconto, entrare gratuitamente in musei e compiere gratis percorsi extraurbani. Naturalmente prima l’organizzazione ha provveduto ad " animare " le istituzioni cittadine perché aprano le porte ai giovani e non interrompano il loro lavoro d’estate. Nelle nostre città interi dopolavori sono vuoti, le biblioteche boccheggiano, i teatri chiudono ed i cinema diffondono pornografia; in compenso discoteche e bar traboccano. Progettare l’animazione del tempo libero significa aiutare gli uomini a liberare il proprio tempo. Significa creare collegamenti, occasioni e strumenti affinché gli uomini sottraggano all’industria del tempo libero il proprio tempo. Ridare unità alla cultura, alla festa, alla politica perché gli uomini, riunificando il proprio tempo, trovino la loro propria unità dimenticata.

4. Animazione e quartiere

Il quartiere è la comunità minima di appartenenza degli uomini, dopo la famiglia. In alcune città i quartieri esistono come retaggio storico; in altre sono stati riconosciuti a livello amministrativo; in altre ancora non esistono né come memoria né come vissuto, né come forma.

4.1 Il quartiere è un subsistema del sistema più vasto che è la città. Anch’essa è un subsistema del sistema più vasto che è la Provincia, la quale, a sua volta, è un subsistema della Regione, subsistema dello Stato. Storicamente questo insieme di scatole cinesi, nasce dal quartiere o borgo, unità minima che ha generato le altre. Storicamente, il processo di formazione degli Stati moderni, si è mosso nel senso di dare importanza sempre all’insieme più grande. Con la formazione dello Stato, tutti i subsistemi territoriali sono stati sviliti, immiseriti e poi svuotati di potere. Fra lo Stato ed il cittadino, nessuna appartenenza intermedia è stata tollerata. Ciò che è sembrato un processo di modernizzazione e di democratizzazione, è divenuto un sistema di dominio del potere statuale sul singolo, privo di ogni protezione. Per quasi cento anni lo Stato italiano, ed il sistema produttivo-distruttivo cui era ideologicamente ispirato, hanno lavorato per la massificazione e l’omologazione dei cittadini. La lingua, l’urbanistica, il sistema industriale, non hanno concesso ai subsistemi di sopravvivere. In Italia, per notare un’inversione di tendenza, si deve arrivare all’istituzione delle Regioni, come entità amministrative.
Naturalmente le Regioni giungono su un tessuto sociale ormai decomposto, quindi riproducono col cittadino la stessa logica dello Stato. Occorre recuperare entità intermedie di appartenenza: il comprensorio, la città, il quartiere.

4.2 Il comprensorio è ancora allo studio, restano la città ed il quartiere. Queste realtà possono ridiventare comunità, nel senso di spazi per lo scambio di doni (cum-munus), o di spazi per la difesa collettiva (cummoenia).
Perché ciò avvenga, occorre che i cittadini riscoprano il senso di essere parte. Essere parte significa riconoscere la propria importanza, ma in connessione con un tutto: accettare l’individuo ed il collettivo come due realtà interdipendenti, non come una contraddizione. La ossessiva sottolineatura dell’individuo, propria della nostra cultura " moderna " e narcisistica, implica la considerazione della comunità come minaccia, limitazione, repressione. Non si tratta di perseguire l’opposta tendenza, che sottolinea ossessivamente la centralità della comunità, fino a considerare l’individuo come pericolo permanente.
Si tratta di accettare la crucialità della compresenza del soggetto e della comunità, della parte e della totalità. Sentirsi parte, equivale a far parte, cioè a partecipare. La partecipazione è insieme valorizzazione dell’individuo e della comunità. L’assenza di partecipazione sembra solo una sottovalutazione del sociale; in realtà è sintomo di un disprezzo per l’individuo. Laddove la comunità non ha valore, nemmeno il singolo ne ha. E la nostra situazione attuale, prova in modo evidente questa affermazione. La distruzione dei subsistemi di appartenenza, lungi dall'essere stato un elemento di libertà e valorizzazione dell’individuo, si è dimostrata elemento centrale della sua reificazione. La morte del valore della micro comunità ha coinciso con la morte del valore del soggetto. L’ironia è che questo processo, patrocinato dallo Stato per il suo predominio, non si è fermato, ma è continuato fino alla morte del valore dello Stato stesso.

4.3 Progettare l’animazione nel quartiere significa anzitutto innescare processi di partecipazione. Significa progettare la ricostruzione intorno al soggetto di un tessuto relazionale, che possa fungere da alveo nutritivo fino a ridare al soggetto un valore. Né ha importanza che la partecipazione sia formalizzata. Essa è anzitutto uno stato d’animo, una percezione psicologica dell’insieme, che consente agli individui di sentirsi in rapporto con una unità. Partecipare significa farsi carico, comunicare, interagire, connettersi. La spinta concreta della partecipazione può essere il senso religioso, come un bisogno materiale; un’istanza culturale come un’esigenza di festa. Anche in questo caso le difficoltà sono molte ed occorrono strategia e tattica. Anzitutto ci sono due potenti ostacoli alla partecipazione: la delega e il voyeurismo.

4.3.1 La delega è collegata alla specializzazione. Poiché una categoria di individui o un’istituzione si specializza in un servizio, essa chiede al resto della comunità una delega per quel servizio. La delega è giustificata inizialmente come atto di sacrificio del delegato, come servizio al delegante, che si sgrava così di una parte dei suoi compiti abituali ed aumenta la sua libertà. All’inizio la delega non ha niente a che vedere con la competenza. Non si delega quasi mai qualcuno perché è competente, semmai costui diventa competente perché è delegato. Una volta avviato, il processo delega-specializzazione si autoalimenta senza fine. La delega crea la specializzazione e questa consente sempre maggiori livelli di delega. Moltiplicando questo processo per il numero di istituzioni che incombono nella società, potremo avere il numero approssimativo di deleghe preconfezionate che la Storia ha imposto all’uomo contemporaneo. Esercito, medicina, religione, istruzione, scienza e tecnica sono alcune specializzazioni che l’uomo ha delegato a istituzioni e professionisti specifici.
Insomma un soggetto, nello Stato moderno, non può combattere, curarsi, parlare con Dio, istruirsi e speculare, senza la mediazione di un tecnico professionista. Forse tutto ciò ha pure validi motivi, ma come si può chiedere a questo soggetto di partecipare attivamente? La partecipazione possibile è quella di carattere politico, cioè di decisione e controllo generale di merito, circa le azioni delle istituzioni specializzate. Ma tutto il processo di costituzione dello Stato moderno prima, e poi la logica del mercato multinazionale, sono andati nel senso di impedire il controllo dal basso. Gigantismo ed ipercomplessità hanno portato ad una specializzazione anche del politico, insieme con la svalorizzazione delle micro e medie comunità. L’unica speranza di ridare il potere politico a ciascun uomo e di consentirgli di partecipare, risiede nella rivitalizzazione di quartieri, piccole associazioni, gruppi a dimensione d’uomo.

4.3.2 Il voyeurismo è una conseguenza della delega. Con essa non solo il soggetto perde il potere politico, ma si libera anche della responsabilità. Le istituzioni delegate, perso ogni contatto coi delegati, si sono nei fatti assunte ogni responsabilità. Agli individui resta il " guardare " come attività esclusiva. Non è un caso che la nostra è stata definita la civiltà dell’immagine. Che i mezzi di comunicazione più potenti sono la tv ed il cinema. Che nel 1979, in Italia, è stato creato lo slogan " né con le BR, né con lo Stato ". La società industriale ha connotato progressivamente gli individui come produttori-consumatori-spettatori La riduzione dei soggetti a spettatori (a occhi) corrisponde alla loro riduzione a recipienti. E un recipiente, si sa, non risponde mai del suo contenuto.
Il cosiddetto " giustificazionismo ", che tende a deresponsabilizzare l’individuo non è, come può sembrare, un atteggiamento in favore dell’uomo, ma la constatazione della sua perdita di valore e dignità. D’altro canto ridare responsabilità all’uomo, senza sottrarlo alla sua condizione di spettatore, è un artificio delle istituzioni e dello Stato.
La strategia dell’animazione nel quartiere punta alla responsabilizzazione, alla uscita dal voyeurismo; ma condizioni di questa azione sono il recupero da parte degli individui, del potere di decisione e di controllo e del ruolo di produttori.
Ecco perché fare animazione di quartiere significa anche occuparsi di organizzazione del lavoro e di struttura occupazionale. Lo slogan " rifiuto del lavoro " non è solo un grido giovanile e luddista. Esso sottintende il rifiuto del lavoro gerarchizzato, parcellizzato, alienante richiesto dalle macroorganizzazioni private e pubbliche, in favore di un lavoro produttivo, attivo, creativo e autonomo. Animare il quartiere significa anche favorire la nascita di cooperative di produzione e consumo, il recupero di tradizioni artigianali, la rivalutazione del valore d’uso accanto al valore di scambio. Animazione di quartiere significa incentivazione del ritiro della delega, aumento dell’attivismo, recupero delle micro e medie comunità, restituzione del potere e della responsabilità agli individui.

Indicazioni bibliografiche

1. P. SLATER, Camminata sulla terra, Ed. OS, Firenze 1978.
z.. AA.VV., Attività di animazione e socializzazione nella scuola dell’obbligo, La Scuola, Brescia 1977.
3. A. SANTONI RUGIU - E. FAGNI, Insegnamento come animazione, Nuova Italia, Firenze 1976.
4. G. CONTESSA - A. ELLENA - R. SALVI, Animatori del tempo libero, SEN, Napoli 1979.
5. AA.VV., Tempo di lavoro e tempo libero, Ed. Usp-Cisl, Milano 1977.

*Estratto da "QUADERNI DI ANIMAZIONE SOCIALE 2" - ANIMATORI DI QUARTIERE- ISAMEPS- MILANO 1981- PAG. 155-163